Il decreto dignità è entrato ufficialmente in vigore. Ecco il testo pubblicato in Gazzetta e una guida ai contenuti del decreto

di Lucia Izzo - L'entrata in vigore del Decreto Dignità il 14 luglio scorso, primo atto di Luigi Di Maio in veste di Ministro del Lavoro, è stata accompagnata da un polverone di polemiche sollevate dalla pubblicazione della relazione tecnica riguardante il provvedimento.

Ma procediamo con ordine e vediamo i contenuti del decreto e la querelle sorta a seguito della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale:

Decreto dignità in vigore

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Nonostante i tafferugli e i battibecchi dei giorni scorsi seguiti alla pubblicazione del decreto legge n. 87/2018 (qui sotto allegato) in Gazzetta Ufficiale (n. 161 del 13 luglio 2018), recante "Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese", il c.d. "Decreto dignità" è entrato ufficialmente in vigore il 14 luglio 2018.


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Dopo la firma del Presidente Mattarella, il provvedimento è stato assegnato alla Commissione Finanze della camera: a partire da oggi proseguirà il suo iter parlamentare e avrà 60 giorni per essere definitivamente convertito in legge.


Oltre a occuparsi con particolare attenzione e urgenza della disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato, il testo non ha mancato di dedicarsi ad altre tematiche particolarmente sensibili per il neo ministro, quale la disciplina dei giochi d'azzardo, riservando un trattamento particolarmente stringente nei confronti delle imprese, destinatarie di fondi pubblici, che delocalizzano la propria attività.

Stretta sui contratti a termine

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A destare maggior attenzione sono le modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, primo tema affrontato dal decreto che dichiara battaglia ai contratti a termine rinnovati ad libitum spingendo verso una transizione a contratti stabili.


Infatti, la nuova disciplina sarà immediatamente applicabile sia ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del decreto, sia ai rinnovi e alle proroghe dei contratti in corso alla medesima data. Fanno eccezione i contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni ai quali continueranno ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto.

La durata

Al contratto di lavoro subordinato, spiega il provvedimento che modifica il d.lgs. 81/2015 (c.d. Jobs Act), potrà essere apposto un termine di durata, ma non superiore a 12 mesi. Inoltre, la durata complessiva del contratto scende da 36 a 24 mesi, con possibilità di proroghe (quattro e non più cinque).


La norma segna il ritorno delle c.d. causali, ovvero particolari circostanze che dovranno indicare gli imprenditori per giustificare la prosecuzione del contratto a tempo che, come precisato, può essere liberamente prorogato solo per i primi dodici mesi.

Le condizioni

Il contratto potrà avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i 24 mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori; esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria. Niente causali, invece, per i lavoratori stagionali contrariamente a quanto si era pensato in una prima bozza.


I contributi


La stretta sui contratti a termine si rispecchia anche dal punto di visto contributivo: infatti, in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione e anche al di sotto dei 12 mesi, i contributi (ex art. 2, comma 28, L. n. 92/2012) sono aumentati di 0,5 punti percentuali, sommandosi così all'1,4% che la Riforma Fornero prevede vada a finanziare l'indennità di disoccupazione NASpI.

Gli indennizzi sui licenziamenti

La normativa, inoltre, stabilisce anche che i lavoratori avranno 180 giorni di tempo (non più 120) per impugnare il contratto a tempo determinato. Inoltre, è inasprito il costo dei licenziamenti illegittimi: sono aumentati del 50%, infatti, gli indennizzi, minimi e massimi, sui licenziamenti illegittimi nei contratti a tutele crescenti. Invece che dalle 4 a 24 mensilità previste dal Jobs Act si sale alle 6 e 36 mensilità.

Addio benefici e multe alle imprese che delocalizzano

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Il decreto introduce disposizioni importanti riguardanti le imprese destinatarie di aiuti di Stato e volte a contrastare le c.d. delocalizzazioni, ovvero i trasferimenti di attività economiche o di parte di esse dal sito produttivo incentivato a un altro sito, da parte della medesima impresa beneficiaria dell'aiuto o di altra impresa con la quale vi sia rapporto di controllo e collegamento.

Infatti, le imprese, italiane ed estere, operanti nel territorio nazionale e che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l'effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell'attribuzione del beneficio, rischiano di decadere dal beneficio medesimo qualora spostino la loro attività fuori dall'Italia.


In particolare, l'addio ai benefici avviene qualora l'attività economica interessata dagli stessi oppure una sua parte venga delocalizzata in Stati non appartenenti all'Unione Europea, a eccezione degli Stati aderenti allo Spazio economico Europeo, entro cinque anni dalla data di conclusione dell'iniziativa agevolata.

Le sanzioni amministrative

In caso di decadenza, sarà l'amministrazione titolare della misura d'aiuto a irrogare all'impresa una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma in misura da 2 a 4 volte l'importo dell'aiuto fruito.

Inoltre, l'importo del beneficio da restituire per effetto della decadenza, sarà maggiorato di un tasso di interesse pari al tasso ufficiale di riferimento vigente alla data di erogazione o fruizione dell'aiuto, maggiorato del 5%.

Ove gli aiuti di Stato di cui abbia beneficiato l'impresa prevedono una valutazione dell'impatto occupazionale, scatta la decadenza laddove, nei 5 anni successivi alla data di completamento dell'investimento, siano ridotti i livelli occupazionali degli addetti all'unità produttiva o all'attività interessata dal beneficio, ove la riduzione superi il 10% e non sia riconducibile a giustificato motivo oggettivo.

In tal caso, la decadenza sarà disposta in misura proporzionale alla riduzione del livello occupazione e sarà totale, invece, qualora la riduzione superi il 50%.

Giochi e scommesse: pubblicità vietate

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Pugno duro anche per quanto riguarda le misure per il contrasto alla ludopatia: il decreto, infatti, dalla sua data di entrata in vigore, vieta qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse manifestazioni sportive, culturali o artistiche, trasmissioni televisive o radiofoniche, stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e internet.

Dal 1° gennaio divieto di sponsorizzazioni

Dal 1° gennaio del prossimo anno, inoltre, il divieto si applicherà anche alle sponsorizzazioni di eventi, attività, manifestazioni, programmi, prodotti o servizi e a tutte le altre forme di comunicazione di contenuto promozionale, comprese le citazioni visive e acustiche e la sovraimpressione del nome, marchio, simboli, attività o prodotti.

Dal divieto sono fatti salvi solo la Lotteria Italia e le manifestazioni di sorte locali. Restano, inoltre, salvi i contratti in essere che saranno soggetti alla normativa anteriormente vigente fino alla loro scadenza e comunque per non oltre un anno data di entrata in vigore del decreto dignità.

Le sanzioni

L'inosservanza del divieto comporta sanzioni nella misura del 5% del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e, in ogni caso, non inferiore a 50.000 per ogni violazione. Tali proventi saranno destinati ad alimentare il fondo per il contrasto al gioco d'azzardo patologico.

Per ovviare ai maggiori oneri derivanti dall'introduzione del divieto, stimati in 147 milioni di euro per l'anno 2019 e in 198 milioni di euro dall'anno 2020, si prevede una maggiorazione del prelievo erariale sulle vincite (Preu) di slot e videolotteries che passa al 19,25% e al 6,25%. Inoltre, al +0,25% dal prossimo settembre, seguirà un +0,25% aggiuntivo su entrambi dal maggio dell'anno prossimo.

Redditometro, spesometro e split payment

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Il decreto si dedica anche alla semplificazione fiscale introducendo diverse misure con riferimento soprattutto al redditometro, per il quale è prevista una totale revisione, allo spesometro, che al momento viene rinviato al 2019, e allo split payment, con l'abolizione del meccanismo per i professionisti:

Revisione redditometro


In primis, viene rivisto il c.d. redditometro, ovvero lo strumento di accertamento (di fatto accantonato già da diverso tempo) con cui il Fisco è in grado di determinare il reddito e il tenore di vita dei contribuenti verificando la sua capacità di spesa tramite un'analisi di compatibilità tra entrate e uscite.

Spesometro rinviato


Una seconda modifica, invece, riguarda il c.d. spesometro, meccanismo di invio dei dati delle fatture emesse e ricevute comunicate all'Agenzia delle Entrate: in particolare, i dati relativi al terzo trimestre del 2018 potranno essere trasmessi entro il 28 febbraio 2019, la scadenza viene dunque rinviata insieme all'invio dei dati riguardanti il quarto trimestre.

Addio split payment


Più rilevante per le casse pubbliche è la novità in materia di split payment, ovvero la c.d. scissione dei pagamenti per contrastare l'evasione, prevedendo che le pubbliche amministrazioni acquirenti di beni e servizi trattengano l'IVA presente in fattura per versarla direttamente all'Erario in luogo dei fornitori.

In particolare, il decreto dignità va espressamente ad escludere dal meccanismo dello split payment i professionisti che forniscono servizi alle amministrazioni pubbliche. Per attuare le disposizioni in materia, la Relazione tecnica al decreto stima oneri per 35 milioni per il 2018, che raddoppiano a 70 milioni per il 2019.

Decreto dignità: le polemiche

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Tornando sulle polemiche, l'origine si deve in particolare alla precisazione, che si legge nella Relazione che accompagna il provvedimento, secondo cui il decreto voluto dal ministro del Lavoro mette a rischio 8mila posti di lavoro all'anno con la conseguenza che nei prossimi 10 anni, fino al 2028, si giungerebbe ad avere 80mila posti di lavoro in meno.

Dopo una pioggia di critiche giunte da più fronti e da diversi partiti, da Dem a Forza Italia, il ministro Di Maio ha bollato come "senza fondamento" questa stima, parlando di "boicottaggio delle lobby" e criticando l'operato di Mef e Ragionerie dello Stato.

Il Mef ha reagito duramente alle parole del ministro, sottolineando come "Le relazioni tecniche sono presentate insieme ai provvedimenti dalle amministrazioni proponenti, così anche nel caso del decreto dignità, giunto in Ministero corredato di relazione con tutti i dati, compreso quello sugli effetti sui contratti di lavoro della stretta anti-precari".

Vai al testo del Decreto Dignità (D.L. 87/2018)


Foto: 123rf.com
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