Trasferimento del lavoratore e principio di buona fede e correttezza

Avv. Prof. Stefano Lenghi - Con sentenza 28 gennaio 2016 n. 1608 (qui sotto allegata) la Corte di Cassazione, Sez. Civ. Lav., ha affermato che, in caso di trasferimento del lavoratore ad una diversa unità produttiva per ragioni tecniche, organizzative e produttive, il datore di lavoro, soprattutto in considerazione delle condizioni economiche, familiari o di salute del prestatore, è tenuto a trasferire quest'ultimo in una sede più vicina di quella assegnatagli, ove l'utilizzazione del prestatore in tale sede più vicina sia compatibile con il soddisfacimento delle suddette ragioni e paritariamente proficua per l'azienda, dovendo il datore adottare la soluzione meno gravosa per il dipendente.

Entriamo nella materia del contendere: le vicende processuali che hanno condotto al giudizio per cassazione.

La vicenda

Un lavoratore, operaio specializzato dipendente dell'ENI spa, ha impugnato il provvedimento, con cui l'ENI lo ha trasferito, per ragioni tecniche, organizzative e produttive, ad altra sede lontana dal suo luogo di residenza (Napoli), avanti al Tribunale di Napoli, che ha respinto la domanda.

Il lavoratore, oltre ad aver eccepito che la datrice non ha fornito alcuna prova della sussistenza delle ragioni tecniche, organizzative e produttive giustificanti il trasferimento, ha, altresì, assunto che, all'epoca del trasferimento, vi erano moltissime sedi più vicine dove poterlo impiegare in modo altrettanto proficuo, mentre il trasferimento era stato disposto in una sede sita a ben 600 chilometri di distanza dal luogo di residenza ed operatività del lavoratore, non tenendo il datore conto delle condizioni economiche estremamente disagiate in cui egli versava, determinate anche dalla inadempienza della società datrice la quale, dopo oltre un anno dalla sentenza

che gli aveva riconosciuto, oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro, il diritto alle retribuzioni medio tempore maturate, non aveva ancora ottemperato alla sentenza. Né la società aveva provveduto a versargli l'indennità di trasferimento prevista dall'art.42 del contratto collettivo di settore.

Poiché la Corte d'Appello di Napoli confermava pienamente la decisione del giudice di prime cure, il dipendente proponeva ricorso per cassazione, articolato su dieci motivi.

Il pensiero espresso dalla Corte di legittimità

Il Supremo Consesso, dichiarando il primo, il secondo, il nono ed il decimo motivo del ricorso fondati (ed omettendo noi, qui, ogni considerazione sui motivi terzo, quarto, quinto, sesto, settimo ed ottavo, in quanto non inerenti strettamente il punto di diritto, che ci occupa), ha espresso la linea di pensiero qui di seguito esposta:

a) come già più volte affermato dalla Corte di legittimità, il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato, deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa e, trovando un preciso limite nel principio di libertà dell'iniziativa economica privata, garantita dall'art. 41 Cost., non può essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore; quest'ultima, inoltre, non deve presentare necessariamente i caratteri dell'inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo (Cass. 2 gennaio 2001 n. 27; Cass. 2 agosto 2002 n. 11624; Cass. 29 luglio 2003 n. 11660; Cass. 18 aprile 2005 n. 7930; Cass. 28 aprile 2009 n. 9921; Cass. 2 marzo 2011 n. 5099).

b) dal principio, poi, secondo cui il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, che legittimano il trasferimento del lavoratore, deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa, discende che tale accertamento non può essere limitato alla situazione esistente nella sede di provenienza, ma deve estendersi anche alla sede di destinazione del lavoratore, restando a carico del datore di lavoro l'onere di provare la sussistenza di dette ragioni (cfr., sull'onere della prova, Cass. 17 maggio 2010 n. 11984; Cass. 11 novembre 1998 n. 11400).

Nella specie, la Corte di merito, dopo avere richiamato i principi - sopra indicati - elaborati in materia dalla Suprema Corte, ha effettuato detto accertamento con riguardo alle unità produttive site a Napoli e nella Regione Campania, esponendo, con motivazione adeguata, coerente e priva di vizi, le ragioni che impedivano alla società datrice di potere impiegare il ricorrente in dette sedi.

Non altrettanto la Corte territoriale ha fatto con riguardo alla sede di destinazione del ricorrente (L.-Collesalvetti), in ordine alla quale si è limitata ad affermare che l'ENI aveva "provato che la destinazione dell'appellante alla sede di Livorno concretava una scelta ragionevole dal punto di vista organizzativo, produttivo e/o dì organizzazione", senza dare assolutamente conto delle ragioni di una siffatta affermazione e senza accertare se vi fosse corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa, tenuto conto delle mansioni di operaio specializzato svolte dal sig. G.;

c) ferma restando l'insindacabilità dell'opportunità del trasferimento, salvo che risulti diversamente disposto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro, in applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede (art. 1375 cod. civ.), qualora possa far fronte a dette ragioni avvalendosi di differenti soluzioni organizzative, per lui paritarie, è tenuto a preferire quella meno gravosa per il dipendente, soprattutto nel caso in cui questi deduca e dimostri la sussistenza di serie ragioni familiari ostative al trasferimento (Cass. 28 luglio 2003 n. 11597);

d) assume la Suprema Corte che non ha altresì la Corte di merito, in relazione al nono motivo del ricorso, adeguatamente motivato in ordine alla congruità del termine di 18 giorni concessi al ricorrente per trasferirsi nella nuova sede di lavoro (Livorno, Collesalvetti), ritenendo che tale termine fosse congruo sull'esclusivo rilievo "che il dipendente non aveva prospettato - né prima né dopo la comunicazione del trasferimento - alcuna particolare esigenza familiare", senza considerare la consistenza del nucleo familiare del ricorrente (moglie e quattro figli in età scolastica) ed altresì che all'epoca del trasferimento non gli erano state ancora corrisposte le retribuzioni conseguenti all'esito favorevole del giudizio instaurato nei confronti di ENI s.p.a..

Riflessioni a margine del magistero espresso dalla Suprema Corte

Diciamo subito che la sentenza, su cui si appunta qui la nostra attenzione, merita senz'altro di essere, oltreché condivisa, anche apprezzata, sia perchè recepisce e conferma alcuni principi fondamentali già affermati dalla Corte di legittimità in materia di trasferimento del lavoratore, sia per la sua portata innovativa in relazione all'assunto, di cui al punto b) del precedente paragrafo.

Ci consenta il lettore di sviluppare qui di seguito qualche nostra considerazione in merito:

1) in ordine all'argomentazione, di cui al punto a) del precedente paragrafo, riteniamo che il controllo giurisdizionale sulla sussistenza delle ragioni tecniche, organizzative e produttive legittimanti il trasferimento non possa che essere mirato ad accertare se il provvedimento di trasferimento sia coerente con il soddisfacimento delle obiettive esigenze addotte dall'impresa che lo ha adottato. Ciò dovendo il magistrato verificare se l'azienda abbia agito per salvaguardare il posto lavoro di un dipendente che, per specifiche ragioni obiettive, essa non poteva più continuare ad utilizzare nell'unità organizzativa di provenienza, in cui il medesimo operava, o se abbia, invece, agito in relazione all'esigenza di impiegare più proficuamente il dipendente in una diversa sede, nella prospettiva di un utilizzo più funzionale del medesimo sul piano dell'efficiente funzionamento dell'apparato organizzativo e produttivo aziendale. Non si può, pertanto, che concordare con l'assunto fatto proprio dalla sentenza e riportato nel suindicato punto a), che, abbiamo, comunque, cercato di decodificare ed esplicare in termini forse più chiari e specifici.

Pertanto, il giudice:

*) non potrà sindacare il merito della scelta operata dall'imprenditore (ovverosia non potrà valutare se la decisione di trasferire il lavoratore, in relazione alle esigenze aziendali da soddisfare, sia la decisione da considerarsi imprenditorialmente più valida ed opportuna), incontrando il potere del giudice un preciso limite nel principio della libertà dell'iniziativa economica privata garantito dall'art.41 della Costituzione, alla luce del quale l'imprenditore, in relazione al rischio d'impresa (che grava esclusivamente ed interamente su di lui), deve poter essere libero di operare le scelte di organizzazione e gestione della sua azienda da lui ritenute più confacenti in rapporto agli obiettivi che, come imprenditore, si è prefissato di conseguire. Poichè esclusivamente sull'imprenditore grava in misura integrale il rischio d'impresa, è chiaro che soltanto l'imprenditore deve poter valutare se il trasferimento del lavoratore sia la decisione imprenditorialmente più congrua in rapporto alle esigenze aziendali da soddisfare. Ed il magistrato è un terzo estraneo all'impresa, che, come tale, non può certo surrogarsi all'imprenditore nell'operare valutazioni o prendere decisioni che, proprio in relazione al rischio d'impresa, rientrano esclusivamente nelle prerogative del titolare dell'impresa stessa;

**) dovrà limitarsi a verificare se le ragioni addotte dal datore a base del trasferimento possano considerarsi effettivamente sussistenti e se, nel percorso logico e mentale che ha condotto l'imprenditore alla decisione di trasferimento del prestatore, esse abbiano inciso in modo veramente determinante sulla formazione della volontà imprenditoriale, o se, invece, sulla formazione della volontà imprenditoriale di trasferire il dipendente abbiano inciso altri elementi e valutazioni estranee alle richiamate "ragioni";

2) concordiamo, altresì, con l'assunto della sentenza, facente parte anch'esso del patrimonio ormai consolidato del pensiero giurisprudenziale della Corte del diritto, secondo cui il trasferimento non deve necessariamente presentare i caratteri dell'inevitabilità, "essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo".

Dalla formulazione della norma in tema di trasferimento del lavoratore (art.2103, ottavo comma, del codice civile, così come formulato dal Decreto Legislativo 15 giugno 2015 n.81, art.3, che non ha, comunque, modificato la formulazione dell'art.13 della legge 20 maggio 1970 n.300 in tema di trasferimento del lavoratore), non traspare, invero, alcun elemento che possa indurre a ritenere che il provvedimento di trasferimento sia legittimo solo se le ragioni aziendali lo rendano necessario, imprescindibile, indispensabile, appunto inevitabile. Il trasferimento del lavoratore è e rimane soltanto una delle opzioni che il datore può utilizzare, quando lo ritenesse adeguato a soddisfare l'esigenza di mantenere quell'efficiente funzionamento dell'apparato tecnico-organizzativo e produttivo che, senza il trasferimento, potrebbe risultare compromesso o quando si rivelasse adeguato ad incrementare l'efficienza dell'organizzazione aziendale;

3) in ordine ai rilievi formulati dalla Suprema Corte e richiamati nel suesposto punto b) del paragrafo precedente, ci sembra meritino di essere senz'altro accolti, anche se vorremmo operare qualche distinguo in un intento maggiormente chiarificatore per il lettore.

E' senz'altro assolutamente corretto affermare, secondo l'insegnamento del Supremo Collegio, che, in punto di trasferimento del lavoratore, non ci si può limitare a considerare la situazione esistente nella sede di provenienza, dovendosi avere riguardo anche alla situazione esistente presso la sede di destinazione del lavoratore. Formulato così, potrebbe, però, anche sembrare che l'assunto della Corte di legittimità voglia privilegiare le ragioni dell'unità di provenienza, facendo presente che un certo spazio dev'essere, comunque, riservato anche alla considerazione della situazione della sede di destinazione.

Noi vorremmo, in merito, precisare che, per effetto del principio di buona fede e correttezza (su cui ci soffermeremo nel prossimo paragrafo di questo nostro intervento), non solo si deve avere riguardo "anche" alla situazione dell'unità di destinazione, ma si deve "sempre" avere riguardo alla situazione dell'unità di provenienza ed a quella dell'unità di destinazione, anche se del tutto diverso è il grado di incidenza, sulla volontà datoriale di trasferire, delle ragioni inerenti a ciascuna sede, a seconda del tipo di provvedimento che il datore si è determinato ad adottare.

Più precisamente, infatti, riteniamo debba distinguersi nettamente tra l'ipotesi del trasferimento del lavoratore, perchè la prosecuzione dell'utilizzazione del dipendente nell'unità di provenienza si rivelerebbe non più proficua e, quindi, antieconomica, e l'ipotesi del trasferimento del lavoratore perchè il suo apporto si rivelerebbe, invece, aziendalmente assai più proficuo nell'unità di destinazione, in quanto, nel primo caso, il datore si determina a trasferire per ragioni che attengono al rapporto tra il prestatore e l'unità di provenienza, mentre, nel secondo caso, il datore trasferisce per ragioni che attengono al rapporto tra il lavoratore e l'unità di destinazione. Nel caso di trasferimento del lavoratore perchè non più proficuamente utilizzabile nell'unità in cui operava (ad es., perchè chiude il reparto Alfa dello Stabilimento di Milano, in quanto improduttivo e da sopprimere, per cui uno dei due addetti a tale reparto, dopo che si è accertato che non può più essere proficuamente utilizzato nell'unità "Stabilimento di Milano", viene trasferito all'unità "Stabilimento di Piacenza"), si modifica il luogo della prestazione del dipendente unicamente per salvaguardargli il posto di lavoro, atteso che, ove si dimostrasse che neppure altrove, e cioè, in alcun'altra posizione aziendale il collaboratore potrebbe essere proficuamente utilizzato in relazione alla sua professionalità ed esperienza, il datore potrebbe procedere al suo licenziamento per giustificato motivo obiettivo. In tal caso ci sembra che il datore non debba avere primariamente riguardo alle "ragioni" dell'unità produttiva di destinazione come ragioni determinanti il trasferimento e non debba, pertanto, dimostrare che trasferisce perchè ha bisogno del lavoratore nella sede di nuova assegnazione, dal momento che la "ragione" aziendale per cui il lavoratore viene trasferito è rappresentata dall'assoluta impossibilità di una sua proficua utilizzazione presso l'unità di provenienza, che già giustifica, di per sè stessa, il trasferimento, per cui la rimozione del dipendente dall'unità di provenienza si pone come un fatto del tutto necessitato, inevitabile, al fine di preservare al prestatore il posto di lavoro. In tale ipotesi la considerazione della scelta della sede di destinazione presenta, per il datore, carattere marginale, nel senso che egli, data per certa l'inutilizzabilità del dipendente nella sede di origine, volendo salvaguardare il posto di lavoro del prestatore, ha solo il problema di individuare, fra le sedi "papabili", quella nella quale la prestazione del lavoratore potrebbe presumersi assicurare al datore quel minimo di proficuità aziendalmente accettabile. In tale contesto l'attenzione che il datore sarebbe chiamato a riporre sull'esigenza di tener conto anche del fatto che dal trasferimento non derivino pregiudizi al lavoratore sul piano personale, familiare, economico, ambientale, della sua salute ed integrità psico-fisica, non potrebbe che essere alquanto marginale, poichè, ove la sistemazione assegnata al lavoratore nella sede di destinazione dovesse essere assunta dal medesimo come soluzione non di suo gradimento, il datore potrebbe sempre azionare il recesso dal contratto per giustificato motivo obiettivo.

Non così nell'ipotesi di trasferimento del lavoratore adottato, perchè, pur dovendosi considerare aziendalmente proficuo l'apporto del lavoratore nella sede di provenienza, a giudizio datoriale, l'utilizzo del prestatore nell'unità di destinazione incrementerebbe apprezzabilmente la produttività e l'efficienza dell'apparato tecnico-organizzativo e produttivo dell'azienda, essendo, in tal caso, persino ovvio che sulla volontà datoriale di trasferire inciderebbero e peserebbero unicamente od in modo assolutamente prevalente le ragioni inerenti il rapporto tra prestatore ed unità di destinazione.

E', pertanto, logico e conseguenziale che, nell'ipotesi in considerazione, volendo il datore "sradicare" dall'unità in cui opera un lavoratore che, sul piano della proficuità della prestazione, egli potrebbe benissimo continuare ad utilizzare nell'unità stessa, il dovere giuridico di comportarsi secondo buona fede e correttezza postuli ed esiga che il datore, nel determinarsi alla decisione di trasferimento, debba tener conto, in via primaria e co-determinante, non solo delle "ragioni" aziendali, ma anche dei pregiudizi che il prestatore potrebbe subire a causa della distanza geografica tra unità di provenienza ed unità di destinazione e delle caratteristiche della sede di destinazione, in relazione anche alla sua situazione personale, familiare, economica, professionale, di salute e di ambiente lavorativo, operando la più adeguata, corretta e razionale composizione degli opposti interessi in conflitto.

Obbligo, quindi, per il datore di prendere in considerazione le situazioni esistenti nelle due sedi (quella di provenienza e quella di destinazione), secondo l'insegnamento della decisione in commento, ma tenendo conto di quanto or ora osservato;

4) in ordine, infine, all'assunto fatto proprio dal Supremo Collegio e richiamato nel punto c) del precedente paragrafo, osserviamo subito che esso rappresenta un po', a nostro avviso, il fiore all'occhiello della decisione, avendo essa affermato un principio, che la giurisprudenza di merito e di legittimità, a quanto pare, stenta ancora a voler proclamare come punto-luce in tema di trasferimento del lavoratore.

A conforto dell'avversa tesi si è, precisamente, assunto che l'art.2103, ottavo comma, del codice civile nella vigente formulazione (peraltro identica, in tema di trasferimento, a quella precedente), nella sua laconicità, richiede, quale unica condizione di legittimità del trasferimento del lavoratore da una unità produttiva ad un'altra, che il datore adduca la sussistenza delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, non prescrivendo alcun altro requisito.

Senonchè, da parte dei giudici autori della decisione in commento, si è subito giustamente avvertito che tale interpretazione di segno opposto è espressione di una lettura della norma soltanto parziale, non tenendo essa conto di un importante cardine e punto-luce dell'ordinamento giuridico, chiamato a governare tutta la materia contrattuale e che irradia la sua luce e la sua forza su ogni fattispecie contrattuale: il principio giuridico, secondo cui il contratto dev'essere eseguito secondo buona fede (art.1375 c.c.) e secondo cui, nell'esecuzione del contratto, le parti devono comportarsi secondo le regole della correttezza (art.1175 c.c.).

Decodificando il pensiero espresso dai giudici in questione, essi hanno, in buona sostanza, opinato che, se è vero, com'è vero, che le parti contrattuali devono ispirare ogni loro atto ed ogni loro manifestazione negoziale al richiamato principio, non si vede come possa considerarsi essersi comportato secondo buona fede e correttezza il datore che abbia trasferito un lavoratore in una sede lontana da quella di provenienza ben 600 chilometri, pur sapendo che esisteva una sede molto più vicina a quella di provenienza, nella quale il prestatore avrebbe potuto soddisfare altrettanto proficuamente e su un piano addirittura paritario le esigenze tecniche, organizzative e produttive, che avevano determinato il trasferimento nella sede geograficamente più lontana, soprattutto tenendo conto delle condizioni economiche, familiari e di vita in cui versava il dipendente (e questo è solo un primo modello di comportamento prescritto al datore dall'applicazione del principio di buona fede e correttezza quale criterio interpretativo della norma sul trasferimento del lavoratore).

Ma veniamo pure ad evidenziare un secondo modello di comportamento prescritto al datore dall'applicazione del principio in questione quale criterio interpretativo della norma sul trasferimento. Proprio, infatti, a proposito del trasferimento, in considerazione del silenzio dell'art.2103 c.c. sull'esigenza che il provvedimento sia disposto con un congruo preavviso, il pensiero giurisprudenziale ha riempito il vuoto normativo, affermando, con univocità di orientamenti, che la necessità, per il datore, che il trasferimento sia disposto con un adeguato periodo di preavviso, pur nel silenzio della normazione legislativa e della contrattazione collettiva, scaturisce, comunque, dal principio di buona fede e correttezza (che è modello legislativo di comportamento per ogni contraente). Ciò in considerazione del fatto che non si comporterebbe certamente secondo buona fede e correttezza quel datore di lavoro che, pur in presenza delle prescritte ragioni tecniche, organizzative e produttive, disponesse, ad es., il trasferimento di un suo collaboratore dallo Stabilimento di Milano allo Stabilimento di Terni con un preavviso di durata che, anche se coerente con le disposizioni della contrattazione collettiva, in rapporto alla situazione di elevato disagio del prestatore sul piano economico, familiare (tre figli in età adolescenziale, di cui uno sottoposto a ricorrente ricovero ospedaliero, perchè affetto da una seria patologia polmonare) e della salute della consorte (affetta da gravissima forma tumorale, che necessita di lunga e pesante cura chemioterapica e radioterapica, appena iniziata), non potrebbe assolutamente considerarsi adeguato, così come non è stato considerato adeguato nemmeno da parte di chi scrive (che pur, nella specifica fattispecie, è professionalmente coinvolto come legale dell'azienda, la quale vorrebbe, invece, adottare il provvedimento), anche e, soprattutto, in considerazione del fatto che le esigenze che il trasferimento è chiamato a realizzare potrebbero essere, quasi altrettanto proficuamente, soddisfatte attraverso il trasferimento nel più vicino Stabilimento di Piacenza. Ci sia consentito riconoscere che applicare il principio di buona fede e correttezza, così come abbiamo proposto al datore, in una delle ipotesi del tipo di quella or ora descritta, oltreché giuridicamente doveroso, significherebbe fare opera di alta umanizzazione del Diritto!

Il caso, cui ora chi scrive si è richiamato, è anche l'occasione per affermare, e certamente in sintonia con la linea di pensiero della Suprema Corte, che, assurgendo il criterio della buona fede e correttezza a principio di natura legislativa, ne consegue che, in base al combinato disposto del principio della gerarchia delle fonti del diritto e del criterio del favor praestatoris, ove l'applicazione, nel caso concreto, del principio di buona fede e correttezza conducesse a far ritenere necessaria, nel caso di trasferimento di un lavoratore da una sede ad un'altra, una durata del preavviso più ampia di quella massima prevista dalla contrattazione collettiva, non vi è dubbio che il giudice debba riconoscere al lavoratore il diritto ad un preavviso di maggior durata postulato dal canone codicistico, in quanto a lui più favorevole.

La stessa sentenza in commento, del resto, si è occupata dell'argomento "preavviso", affermando, in sede di disamina del nono motivo del ricorso, che la Corte di merito, nel considerare congruo il termine di diciotto giorni concesso al ricorrente per trasferirsi nella nuova sede di lavoro (Livorno) a seicento chilometri dalla sede di provenienza, non ha fornito adeguata motivazione a sostegno della sua tesi, ritenendo che tale termine fosse congruo sull'esclusivo rilievo "che il dipendente non aveva prospettato - né prima né dopo la comunicazione del trasferimento - alcuna particolare esigenza familiare", senza considerare la consistenza del nucleo familiare del ricorrente (moglie e quattro figli in età scolastica) ed altresì che all'epoca del trasferimento non gli erano state ancora corrisposte le retribuzioni conseguenti all'esito favorevole del giudizio instaurato nei confronti di ENI s.p.a..

Ma vi è di più. Dall'applicazione del principio di buona fede e correttezza nell'interpretazione della norma sul trasferimento scaturisce, se vogliamo, la necessità, per il datore, di adottare un terzo modello di comportamento. In omaggio a tale principio, infatti, i giudici del lavoro hanno invalidato e continuano ad invalidare provvedimenti di trasferimento di lavoratori da un reparto all'altro della stessa unità produttiva, in quanto i datori, forti del fatto che, per tale trasferimento, non sono necessarie le ragioni tecniche, organizzative e produttive, prendono a spostare in modo spesso ripetitivo dei dipendenti da un reparto all'altro della stessa unità produttiva più per pretesti di carattere personale che per motivi che trovano il loro fondamento in ragioni, comunque, afferenti al miglior funzionamento dell'unità produttiva. Ci sovviene il caso del direttore di una filiale di società della grande distribuzione, che, non nutrendo troppa fiducia e simpatia nei confronti di una commessa dal carattere alquanto reattivo e spesso incline a comportarsi in modo non del tutto consono alle disposizioni del superiore, prende a modificarle sistematicamente il reparto di assegnazione per motivi che si rivelano non connessi con specifiche esigenze della filiale e, per di più, con decisioni non preavvisate. Orbene, val la pena di ricordare che la magistratura del lavoro continua a fare correttamente giustizia di tali comportamenti datoriali del tutto arbitrari, affermando che, se è vero che in tali casi il trasferimento non dev'essere assistito dalle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, è altrettanto vero che il datore ha, comunque, sempre il dovere di comportarsi secondo buona fede e correttezza, dovere che impone al datore di adottare una mobilità interna alla stessa unità produttiva non in base a pretesti o a motivi personali, ma a motivi pur sempre ricollegabili a ragioni obiettive connesse con l'efficiente funzionamento dell'organizzazione, nonchè supportata da decisioni leali, congruamente motivate e preavvisate e, comunque, non arrecanti ai destinatari disagi maggiori di quelli che essi subirebbero da un esercizio corretto e coerente del potere organizzativo e direttivo. Ed abbiamo così consigliato all'azienda da noi assistita di rappresentare ai Direttori di Filiale, con apposita comunicazione interna, l'esigenza di adottare nei confronti dei loro collaboratori decisioni che, relativamente alla mobilità interna alla singola unità, siano conformi ai modelli di comportamento richiesti dall'applicazione del principio di buona fede e correttezza, così come esplicitati e specificati anche dalla magistratura del lavoro.

Il giudicato della Cassazione, sul punctum juris che ci occupa, è da considerarsi veramente pregevole, perchè, attraverso l'applicazione di un principio-criterio interpretativo, che consente di colmare le lacune di una norma di legge in nome dell'attuazione di una equità e giustizia sostanziale, offre un'importante apertura verso considerazioni circa la necessità che il datore di lavoro, nella quotidiana gestione dei rapporti di lavoro, ponga attenzione al ruolo centrale che assume la persona umana nel processo di crescita dell'azienda ed eserciti quel potere organizzativo e direttivo, che è espressione della situazione di supremazia di cui egli è titolare, adottando, fra le varie soluzioni possibili, quelle che, compatibilmente con il soddisfacimento delle esigenze aziendali, arrechino ai propri collaboratori vantaggi o, quanto meno, il minor pregiudizio possibile sotto i vari profili di tutela considerabili (professionale, economico, umano, familiare, ambientale, di tutela della salute, ecc.), questo essendo, senza dubbio, il miglior modo di comporre gli opposti interessi in conflitto.

In tale ottica bisogna riconoscere che il dovere imposto ai contraenti di comportarsi, nell'esecuzione del contratto, secondo correttezza e buona fede, soprattutto ove interpretato ed applicato da parte del giudice come chiave per accordare al lavoratore quelle tutele di civiltà sul piano umano, familiare, economico, ambientale e della salute non prese in considerazione dal silenzio delle norme, può apportare un incisivo contributo all'affermazione di quel principio di solidarietà sociale, alla cui realizzazione, in attuazione dei dettami costituzionali di un ordinamento che vuole definirsi ad alta valenza democratica, è improntata un po' tutta l'evoluzione del corpo normativo, in nome di quella funzione sociale che il Diritto, con la D maiuscola, dev'essere chiamato a perseguire. In fondo, già l'art.1175 c.c., nella sua stesura originaria (espressione dell'ordinamento corporativo), precisava che sulle parti di un contratto grava l'obbligo di comportarsi secondo le regole della correttezza "in relazione ai principi della solidarietà corporativa" ed oggi avremmo il dovere di considerare tale inciso come pienamente operante e con riferimento ai principi di solidarietà proclamati dalla Carta Costituzionale.

Da parte di qualche giurista si era, peraltro, preso a sostenere che, stante la genericità di enunciazione del principio di buona fede e correttezza, la sua concreta applicazione facoltizzerebbe il giudice a prescrivere alle parti, come obbligatori, modelli di comportamento (così, per stare alle fattispecie di trasferimento da noi attenzionate, a ritenere la necessità che il datore disponga il trasferimento con un determinato preavviso e in un'unità più vicina a quella di provenienza) che la legge non ha previsto, demandando, così, al giudice una potestà di creazione normativa, in contrasto con il ruolo del magistrato, che dovrebbe, invero, limitarsi ad una funzione interpretativa ed applicativa dei plessi normativi. In altri termini, molto semplicemente, il dovere di far rispettare il principio di buona fede e correttezza autorizzerebbe il giudice a creare diritti ed obblighi giuridici, consentendogli, quindi, di arrogarsi un potere precluso, sul piano costituzionale, al magistrato, il cui ruolo è solo quello di interpretare ed applicare le norme.

Diciamo subito che tale linea di pensiero è stata e dev'essere pienamente contestata. Il giudice, infatti, quando, sul presupposto della violazione del principio in questione, accoglie la richiesta del lavoratore intesa a rivendicare il diritto ad una determinata decisione datoriale (ad es., di trasferimento in una sede più vicina), altro non fa che prescrivere al datore di adottare quella stessa decisione, che, se prima adottata, avrebbe consentito di conformare il proprio comportamento al rispetto del principio stesso. Nessuna creazione, pertanto, di diritti ed obblighi ex novo da parte del giudice, ma unicamente imposizione al datore di comportamenti in linea logica sostitutivi di quelli lesivi del principio di buona fede e correttezza ed idonei a riparare la lesione.

Ci troviamo, indubbiamente, dinnanzi ad un principio di carattere generale, il cui rispetto può essere garantito dal giudice soltanto attraverso l'imposizione a chi lo ha violato di determinati modelli di comportamento, che reintegrino il soggetto leso nel suo diritto ad ottenere dalla controparte comportamenti nel rispetto del principio di buona fede e correttezza. Nessuna abdicazione del giudice, pertanto, dal suo ruolo di interprete del diritto, ma una consapevole ed illuminata devoluzione al giudice della potestà di imporre, attraverso un'attività di "interpretazione creativa" della norma (e non attraverso un'attività di creazione normativa!), comportamenti orientati postulati da un principio di ordine legislativo portatore di equità e di giustizia sostanziale.

In conclusione, una sentenza che merita di essere annoverata fra i contributi della Suprema Magistratura del Lavoro ad un uso delle potestà datoriali di supremazia finalizzato non solo ad assicurare un profitto economico, ma anche una gestione dei rapporti di lavoro improntata a comportamenti sempre ispirati a correttezza, lealtà e senso di umana solidarietà, nonchè al dovere giuridico datoriale di realizzare le esigenze aziendali con modalità tali da soddisfare, nel contempo, anche gli interessi dei collaboratori incardinati nell'organizzazione aziendale o, quanto meno, tali da arrecare loro il minor pregiudizio possibile sotto ogni profilo che possa venire in considerazione. Ed anche questo, in fondo, rientra nell'attuazione, in senso lato, della funzione sociale dell'impresa, affinchè efficienza economica dell'azienda ed umanizzazione dei rapporti di lavoro possano riverberare i loro benefici effetti sullo sviluppo di tutto il corpo sociale.

Cassazione, sentenza n. 1608/2016

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