Analisi della sentenza della corte costituzionale n. 194 del 2018 depositata oggi in materia di licenziamenti

di Luca Passarini - La Corte costituzionale ha pubblicato oggi la sentenza 194 del 2018, decisa il 26 settembre 2018, circa il giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro (nel corso quindi di un procedimento in via incidentale).

Gli articoli denunciati dal giudice a quo

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Come riconosciuto nella sentenza, nella parte in diritto, gli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 − adottato dal Governo nell'esercizio di tale delega − dettano il regime di tutela del lavoratore contro i licenziamenti, rispettivamente, «discriminatorio, nullo e intimato in forma orale» (art. 2), «per giustificato motivo e giusta causa» quando si accerti che non ricorrono gli estremi di tali causali (art. 3) e affetto da «vizi formali e procedurali» (art. 4).

I denunciati artt. 2, 3 e 4 si applicano ai lavoratori, con «qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015; quindi, ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato instaurati a decorrere dal 7 marzo 2015. Ai lavoratori assunti prima di tale data continua pertanto ad applicarsi il "precedente" regime dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300.

Illegittimità denunciate

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Il giudice a quo aveva sottolineato che le disposizioni denunciate, contrastano con gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione.

In violazione quindi del principio di eguaglianza perché le presenti disposizioni tutelano i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente deteriore rispetto a quelli assunti prima di tale data; inoltre le disposizioni censurate violano, ancora una volta, il principio di eguaglianza perché il carattere «fisso e crescente solo in base all'anzianità di servizio» dell'indennità da esse prevista comporta anche che «situazioni molto dissimili nella sostanza» vengano tutelate in modo ingiustificatamente identico.

Il giudice a quo sottolineava poi come la normativa denunciata non può ritenersi rispettosa del valore attribuito al lavoro da tali parametri costituzionali giacché «sostanzialmente "valuta" il diritto al lavoro […] con una quantificazione […] modesta ed evanescente […] ed oltretutto fissa e crescente in base al parametro della mera anzianità» e considerato anche che «le tutele dei licenziamenti […] sostengono la forza contrattuale del lavoratore nella relazione quotidiana sul luogo di lavoro» e «proteggono le libertà fondamentali di lavoratrici e lavoratori» in tale luogo.

Le disposizioni denunciate non rispettano, quanto all'art. 76 Cost., il criterio direttivo, dettato dall'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, della «coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le convenzioni internazionali» e, quanto all'art. 117, primo comma, Cost., i «vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», perché si pongono in contrasto con le norme dell'Unione europea e internazionali che sanciscono il diritto del lavoratore «a una tutela efficace nei confronti di un licenziamento […] ingiustificato».

Anzitutto, il giudice a quo rilevava possibile illegittimità costituzionale per il tramite dell'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE); in secondo luogo, per il tramite dell'art. 10 della Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL); e in terzo luogo, per il tramite dell'art. 24 della Carta sociale europea del 1996.

Il decreto dignità

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La Corte costituzionale ha poi concentrato la propria attenzione all'entrata in vigore del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96. Tale decreto, all'art. 3, comma 1, ha modificato una delle disposizioni oggetto del presente giudizio, e cioè l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alla parte in cui stabilisce il limite minimo e il limite massimo entro cui è possibile determinare l'indennità da corrispondere al lavoratore ingiustamente licenziato. Il citato art. 3, comma 1, del d.l. n. 87 del 2018 ha innalzato tali limiti, rispettivamente, da quattro a sei mensilità (limite minimo) e da ventiquattro a trentasei mensilità (limite massimo) dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR).

Il rimettente denuncia l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in quanto dispone che il giudice, una volta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, che deve essere di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, entro una soglia minima e una soglia massima.

Non è dunque il quantum delle soglie minima a essere considerata illegittima, quanto il meccanismo di determinazione dell'indennità, configurato dalla norma censurata. Per il giudice a quo la norma in esame introduce un criterio rigido e automatico, basato sull'anzianità di servizio, tale da precludere qualsiasi «discrezionalità valutativa del giudice», in violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza.

Lo ius superveniens del decreto dignità incide quindi sul presente giudizio incidentale, ma nel caso in esame non è stato intaccato il meccanismo contestato, sicché non mutano i termini essenziali della questione posta dal giudice a quo. In questo modo il giudizio di fronte alla Corte costituzionale è continuato.

Circoscrizione dell'illegittimità

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Di tutta la questione presentata, il giudice delle leggi ha fatto chiarezza sottolineando come il giudizio di legittimità costituzionale resta circoscritto al solo art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015.

Passando allo scrutinio delle questioni sollevate si può schematicamente riportare che la questione per il Giudice delle Leggi non è fondata:

- in riferimento all'art. 3 Cost., con la quale il rimettente deduce che l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 viola il principio di eguaglianza, perché tutela i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente deteriore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data.

- in riferimento all'art. 3 Cost., con la quale il rimettente deduce che l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 viola il principio di eguaglianza perché, nell'ambito degli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, tutela i lavoratori privi di qualifica dirigenziale in modo ingiustificatamente deteriore rispetto ai dirigenti, i quali, «non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente».

La questione è invece stata parzialmente accolta in riferimento agli artt. 3 (in relazione sia al principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse, sia al principio di ragionevolezza), 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. (questi ultimi due articoli in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea), il denunciato art. 3, comma 1, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,».

Le «mensilità», cui fa ora riferimento l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sono da intendersi relative all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR (d.lgs. n. 23 del 2015).

Nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo in cui va quantificata l'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell'anzianità di servizio - criterio che è prescritto dall'art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n.23 del 2015 - nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti).

Mentre la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 e degli artt. 2, 3, commi 2 e 3, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione; in relazione all'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), in base alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 e all'art. 24 della Carta sociale europea.

Leggi anche Indennità di licenziamento come si calcola


Luca Passarini

Studente di Giurisprudenza dell'Università di Bologna

lucapassarini19@gmail.com


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