"Nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il datore di lavoro non solo è contrattualmente obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l'integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente (ai sensi dell'art. 2087 cod. civ.), ma deve altresì rispettare il generale obbligo di neminem laedere e non deve tenere comportamenti che possano cagionare danni di natura non patrimoniale, configurabili ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i suddetti diritti.".

Indice della guida sul mobbing:

Ribadendo tale principio la Suprema Corte, con sentenza n. 12725/2013, decidendo sul ricorso proposto da un lavoratore volto ad ottenere dalla datrice di lavoro il pagamento di: 1) una giusta remunerazione per i maggiori incarichi svolti con mansioni superiori rispetto a quelle dell'assunzione; 2) l'indennità/incentivo comunque dovutagli "per gli eccellenti risultati conseguiti dall'azienda" in costanza di rapporto di lavoro; 3) l'indennità di trasferimento di proprietà dell'azienda e l'indennità sostitutiva di preavviso, rispettivamente previste dagli artt. 13 e 16 CCNL di categoria (dirigenti); 4) i danni patiti a causa del demansionamento

e/o del mobbing; 5) il danno biologico riconducibile all'attività lavorativa svolta; 6) i danni per invalidità da attività lavorativa specifica, ha affermato che "Tali comportamenti, anche ove non siano determinati ex ante da norme di legge, sono suscettibili di tutela risarcitoria previa individuazione, caso per caso, da parte del giudice del merito, il quale, senza duplicare le voci del risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), è chiamato a discriminare i meri pregiudizi - concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno invece risarciti".

In particolare i Giudici di piazza Cavour hanno precisato che "Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Quel che è certo - si legge nella sentenza - è che per la configurabilità della responsabilità per mobbing lavorativo, in senso proprio, è necessario che siano provati tutti i suddetti elementi e dunque è immune da vizi la decisione del giudice di merito di escludere la configurabilità del mobbing, giustificata - sulla base dì un giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato - dalla mancanza di significative allegazioni e prove al riguardo.


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