Per la Cassazione è invalido e non meramente inefficace il licenziamento intimato per il perdurare della malattia, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto

di Lucia Izzo - Deve ritenersi nullo, per violazione dell'art. 2110, comma 2, c.c. il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità.


È il principio di diritto stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 12568/2018 (qui sotto allegata), pronunciatasi sul ricorso di un lavoratore che era stato licenziato in costanza di malattia, prima che si fosse compiutamente esaurito il periodo di comporto.


Per i giudici di merito, tuttavia, tale recesso (intimato in ragione del protrarsi delle assenze per malattia del lavoratore), anziché invalido, andava considerato meramente inefficace sino all'ultimo giorno di malattia.


Gli Ermellini offrono importanti chiarimenti sul punto sul quale sembra sussistente un apparente contrasto giurisprudenziale, stante le decisioni che il giudice a quo ha posto a fondamento della propria decisione.

In precedenti pronunce, in effetti, la stessa Cassazione ha statuito il differimento dell'efficacia del licenziamento sino allo scadere del periodo di comporto, ma lo ha fatto in relazione a licenziamenti alla cui base vi era già un motivo di recesso diverso e autonomo dal mero protrarsi della malattia (ad es. per licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, per riduzione di personale, per giusta causa ecc.).

Si tratta di un'ampia casistica in cui, tuttavia, il perdurare della malattia fungeva non da motivo di recesso, ma da elemento a esso estrinseco e idoneo soltanto a differire l'efficacia del licenziamento, mentre nella vicenda in esame il protrarsi della malattia integra di per sé l'unica ragione del licenziamento.

Licenziamento nullo al lavoratore in malattia prima del termine del periodo di comporto

Per i giudici, ammettere come valido (sebbene momentaneamente inefficace) il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto. significherebbe consentire un licenziamento che, all'atto della sua intimazione, è ancora sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo e non è sussumibile in altra autonoma fattispecie legittimante.

In tal caso, si realizzerebbe un licenziamento sostanzialmente "acausale" disposto al di fuori delle ipotesi residue previste dall'ordinamento, ignorando la ratio dell'art. 2110, comma 2, c.c. che è quella di garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia o infortunio senza per ciò solo perdere l'occupazione.

Neppure si può aderire all'opzione ermeneutica della mera inefficacia, spiegano i giudici, adducendo che la fattispecie legittimante il recesso (vale a dire il superamento del periodo di comporto) si potrebbe realizzare successivamente: infatti, è necessario che i requisiti di validità del licenziamento sussistano al momento in cui esso si perfeziona.

In conclusione, le Sezioni Unite ritengono di dover dare continuità all'orientamento giurisprudenziale che considera nullo il licenziamento intimato solo per il protrarsi delle assenze dal lavoro, ma prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto.

Ciò anche in considerazione del prioritario e "fondamentale diritto dell'individuo", ex art. 32 Cost, alla tutela della propria salute che può avvenire solo in presenza di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro.

Cass., Sezioni Unite, sent. 12568/2018

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