Il termine attribuisce mancanza di senso civile ed educazione e perciò è integrato il reato di diffamazione per la lesione dell'altrui reputazione

di Marina Crisafi - Attenzione a dare degli "animali" ai vicini di casa, perché potrebbe costare una condanna per diffamazione. A stabilirlo è la Cassazione confermando, nella sentenza n. 35540/2016 (qui sotto allegata), la condanna a 400 euro di multa oltre al risarcimento dei danni, per il reato di cui all'art. 595 del codice penale, nei confronti di una donna che in udienza si era rivolta all'indirizzo di una coppia affermando: "questi non sono persone, ma animali".

Nella vicenda, gli scontri frequenti tra i tre nel condominio, arrivati anche in un'occasione alle mani, erano finiti inevitabilmente dinanzi ai giudici. Ma neanche in aula il clima teso si era attenuato, tanto che la donna sotto accusa nel corso di un'udienza pubblica davanti al giudice di pace e in presenza di più persone, rendendo dichiarazioni spontanee, definiva i coniugi come animali, offendendone così l'onore e il decoro.

A nulla vale la tesi difensiva dell'imputata che sosteneva di non aver inteso né offendere né diffamare la coppia, utilizzando la frase al solo fine "di far meglio comprendere al giudice di pace i fatti per i quali era maturata l'imputazione di cui al procedimento". Per gli Ermellini, infatti, il ricorso è inammissibile e comunque manifestamente infondato e la valutazione di merito va confermata.

Non vi sono dubbi infatti, si legge in sentenza, che il termine "animali" utilizzato nel rivolgersi alla coppia "si presenta offensivo dell'onore e decoro dei destinatari, con esso volendosi attribuire alle persone offese mancanza di senso civico e di educazione, caratteristica questa, secondo la comune sensibilità, lesiva dell'altrui reputazione".

Se, infatti, il bene giuridico tutelato dalla norma ex art. 595 c.p., prosegue la S.C. "è l'onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (alias reputazione) di ciascun cittadino e l'evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente ad incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino, l'espressione oggetto di contestazione è obiettivamente pregiudizievole della reputazione della persona offesa

, concretizzando un pregiudizio anche la divulgazione di qualità negative idonee ad intaccarne l'opinione tra il pubblico dei consociati".

Né, nel caso di specie, può ritenersi ricorrente la scriminante ex art. 599/2 c.p., giacché non si ravvisa, come evidenziato dal giudice d'appello, "alcun fatto ingiusto altrui che abbia potuto determinare lo stato d'ira dell'imputata, consentendo di ritenere non punibile la sua condotta".

Cassazione, sentenza n. 35540/2016

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