di Paolo M. Storani - Il processo civile è quanto di meno formalistico esista.

Salvatore SATTA si riferiva ovviamente a quello che ora, per definizione, abbiamo preso a definire vecchissimo rito, ma il concetto rimane valido con quello attuale, scaturito dalle mille toppe di Arlecchino di un legislatore che ignora le riforme organiche.

Mentre ricevo la telefonata che mi preannuncia l'argomento specifico di una relazione che dovrò tenere in Parlamento sul tema delle conclusioni nelle cause da risarcimento danni, ripenso ad un pezzetto che predisposi in materia per il quotidiano telematico Persona & Danno diretto dal Prof. Paolo Cendon: era il 14 gennaio 2012.

Prendevo le mosse da una pronuncia del Giudice del Tribunale di Piacenza, Dott. Gianluigi MORLINI, ora al Tribunale reggiano, che, con la pronuncia 29 settembre 2011, aveva liquidato egualmente il danno biologico tra i lamenti sollevati dalle difese di convenuto e terzo chiamato; va distinto subito il potere di allegazione, che spetta sempre e solo alla parte, dal potere di rilevazione che può anche spettare al giudice; concetti che troviamo espressi con chiarezza e completezza nell'originale quanto ad impostazione ed utilissimo Codice di Procedura Civile a cura di Luigi Viola, 2^ ed. 2013, edizioni Cedam; il testo è ricchissimo di approfondimenti di giurisprudenza e di dottrina.

Era successo che quella voce risarcitoria non era stata affatto richiesta nelle conclusioni rassegnate dall'avvocato del danneggiato - attore, 79enne morso alla coscia dal cane del convenuto e, se non bastasse, anche bastonato dal padrone dell'animale sol perché tentava di divincolarsi dalla presa e, quindi, stava scalciando il cane.

Cornuto e mazziato si direbbe a Napoli.

Sotto tale profilo va soggiunto che la manleva del proprietario del cane nei riguardi dell'assicuratore BPU (recepita in relazione ai pregiudizi provocati dall'animale) è stata rigettata relativamente ai danni inferti direttamente dall'assicurato, qualificati come volontari e, quindi, al di fuori del cono operativo del rischio pattiziamente stabilito con la polizza di responsabilità civile.

Tant'è che l'autorevole Giudice Monocratico riconosceva la responsabilità del convenuto a mente vuoi dell'art. 2052 c.c. relativamente alle ferite provocate dall'animale, vuoi dell'art. 2043 c.c. relativamente a quelle sequele scaturenti dall'aggressione umana.

Di solito, quando prendiamo in esame la giurisprudenza di prossimità, partiamo sempre penalizzati dalla lacunosa conoscenza degli atti; per converso, nella fattispecie ora portata all'attenzione dei visitatori di LIA Law In Action emergono elementi significativi.

In primo luogo, quella nucleare voce di pregiudizio il giudice non se l'era sognata, ma l'aveva correttamente desunta ed estratta dagli atti del processo, pur a fronte di "tecnica giuridica ...molto imprecisa e confusa", riferisce il Giudicante.

In special modo avevano calamitato l'interesse del Giudice i documenti e le allegazioni dell'avvocato dell'attore.

Campeggiava la certificazione medica che era perfettamente utilizzabile ai fini dello statuire; in tema di danno alla salute, infatti, è onere della parte dimostrare l'esistenza e l'entità delle lesioni, e la loro derivazione causale.

Del resto, è verosimile arguire che dal contesto degli atti si afferrasse perfettamente quel che chiedeva alla Giustizia il malcapitato; e così il convenuto (qui abbiamo già segnalato che vi era la compresenza dell'impresa assicurativa, evocata in manleva quale terzo garante) non potrà dolersi invocando il principio di parità delle parti sancito all'art. 111 della Costituzione su cui ci diffonderemo nella parte finale di questo ...saggetto.

Per il momento sarà sufficiente porre in risalto che nel processo civile non sarebbe presidiata la parità dei litiganti ove si consentisse all'attore di formulare la domanda in modo assolutamente generico.

Si prenderà in esame nel seguito di queste noterelle tale imponente aspetto, che sparge una coltre di nebulosità, di perplessità, di enigmi e di misteri sul tema in oggetto.

Per contro, al convenuto si impone di sollevare le eccezioni non rilevabili di ufficio con la comparsa di costituzione e di risposta tempestivamente depositata: ciò a pena di decadenza.

Va da sé che quel diritto di difesa non potrà essere esercitato se prima non sarà adempiuto il correlativo onere a carico dell'attore di indicare analiticamente le voci di danno.

Il buon senso, prima ancora della norma procedurale, impone accuratezza e precisione nell'elencazione degli aspetti deduttivi ed assertivi per poi passare alle richieste di prova ed alla documentazione che comprova quanto ci prefiggiamo di vedere affermato nella sentenza che ci auguriamo vittoriosa.

Ma guardiamo con l'occhiale laico alla fattispecie affrontata dal Tribunale di Piacenza prima di gridare a disparità di trattamento attore - convenuto o ad errori cognitivi, deduttivi, induttivi del giudice.

Quel pur sacrosanto diritto di difesa poteva ben essere esercitato in un contesto che era di palmare evidenza, al di là di formule sacramentali.

Rimaneva soltanto il problema formalistico delle conclusioni prese dal legale dell'attore che, dalla lettura del dato testuale della sentenza ex art. 281-sexies c.p.c., non contemplavano la voce del danno biologico.

Tempo fa meditavo, in occasione di un minuscolo contributo, pubblicato nel 2010 proprio sulle colonne virtuali (che state consultando in questo istante) di Studio Cataldi, sulla formula generica, esteriormente sciatta, secondo taluni ambigua, ma nella pratica incisiva, di richiedere la condanna dei convenuti al risarcimento di "tutti i danni", già risentiti dall'attore e che si renderanno esteriori in prosieguo, che abbiano derivazione causale o concausale dall'evento pregiudizievole dedotto in giudizio e dipendano dalla condotta del responsabile.

Fateci caso: per i manuali e per le monografie il tema di come si rassegnano le conclusioni è un perfetto sconosciuto; quasi nessuno insegna come si fa! Lo fa, invece, Luigi Viola, a pag. 499 del Codice di Procedura Civile commentato per i tipi di Cedam (i cui riferimenti ho sopra già descritto analiticamente), spiega con chiarezza che "la precisazione delle conclusioni 'come da atto introduttivo' impedisce al giudice di considerare le istanze istruttorie contenute in atti successivi (nella specie, nelle memorie ex art. 183 c.p.c.)".

Talché, in tale ipotesi, sarebbe stato forse preferibile che il difensore non si fosse presentato affatto in udienza (pur presente, però, il contraddittore, altrimenti sarebbe stato applicabile l'art. 309 c.p.c.) perché avrebbe valso la presunzione che la parte tiene ferme le conclusioni precedentemente formulate.

Ordunque, la formula, pur ambigua e generica, magari accompagnata dal riferimento esplicito alla nostra meravigliosa Carta costituzionale, in virtù degli articoli 2, 3, 32 ad esempio, può essere una valida àncora di salvezza al cospetto di una giurisprudenza che evolve e muta, mentre i nostri processi hanno lungaggini paradossali che impediscono alle parti litiganti di ottenere definitivamente ragione in un arco temporale ragionevole, procrastinando le liti oltre ogni plausibile ragione ed oltre ogni grado di sopportazione per le parti private.

Se ci si riflette su, la stessa esecutorietà provvisoria di cui all'art. 282 c.p.c. risponde alla medesima aspettativa: la scelta di campo del legislatore con la legge 26 novembre 1990, n. 353, art. 33, risponde proprio all'esigenza di imprimere l'idoneità alla sentenza di costituire titolo esecutivo anche prima del passaggio in giudicato.

Volendo, riportando il discorso sul corpo delle conclusioni si potranno inserire direttamente i precetti costituzionali nelle conclusioni da rassegnare avanti all'Istruttore o al Collegio: l'art. 2 menziona i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolga la sua personalità, l'art. 3 parla di dignità sociale e di uguaglianza avanti alla legge senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione ecc..., l'art. 4 riguarda il diritto al lavoro, l'art. 10 specifica che l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, l'art. 24 sancisce che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi e che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, e l'art. 32 tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo.

Si può anche aggiungere nel novero delle conclusioni la formula "condannarli in solido al risarcimento dei danni tutti patiti dall'attore, nella misura indicata nella parte motiva del presente atto, ovvero in quella somma maggiore o minore che sarà ritenuta di giustizia, ivi compreso il danno da ritardato adempimento, oltre alla refusione delle spese e dei compensi tutti di lite". 

Attualmente nei giudizi che hanno ad oggetto il ristoro dei danni da lesioni personali la giurisprudenza non esige dall'attore, ai fini della validità della domanda, alcuna indicazione in merito all'ammontare della somma invocata a titolo di risarcimento, accontentandosi della generica formula "della somma che sarà ritenuta di giustizia"

Perciò per una volta LIA Law In Action non Vi offrirà l'ultimo grido dell'autorevole Corte Suprema di Cassazione o la creatività, talora smagliante (il pensiero va immediatamente al talento surgivo di Giuseppe Buffone ora alla Sez. I del Tribunale di Milano, munito di recente nomina a formatore decentrato per il Distretto di Milano), della magistratura di merito: deliberatamente non menzionerò per il momento sentenze risolutive, riferendomi invece alla mia personale casistica.

A mio avviso, ma sono apertissimo a confronti del pensiero con Voi, l'adozione di tale generosa, ampia e salvifica formula pone l'avvocato al riparo da addebiti futuri e da rogne a titolo di responsabilità professionale.

Correlativamente, con certezza sorge per il giudice l'obbligo di individuare e liquidare i pregiudizi effettivamente sofferti dal danneggiato: sarà, quindi, possibile ...raschiare il barile in caso di esito positivo della controversia

In buona sostanza, se l'attore domanda il risarcimento di "tutti i danni", senza alcuna altra precisazione, potrà anche soltanto in comparsa conclusionale precisare tutte le voci delle quali chiede il ristoro, senza alcuna preclusione, e con l'obbligo del giudice di accertare ex officio quali siano i danni effettivamente dimostrati. 

Va, però, sottolineato che le comparse conclusionali non possono modificare le conclusioni; possono contenere nuovi profili di diritto con la possibilità di impostare diversamente dal punto di vista del diritto la controversia che si presenta in decisione, purché tale differente impostazione in diritto non presupponga l'allegazione in giudizio di fatti nuovi, perché allora ciò non sarebbe possibile proprio per l'impossibilità di introduzione di fatti nuovi. La conclusionale ha la sola funzione di illustrare le domande e le eccezioni già ritualmente proposte, talché, ove sia prospettata per la prima volta una questione nuova con tale scritto difensivo finale, il giudice non può e non deve pronunciarsi al riguardo; eventuali conclusioni aggiunte (ed a maggior ragione documenti) non possono essere prese in considerazione dal collegio e dal giudicante. Si ritiene tuttora operante (e anzi rafforzato) il disposto del previgente comma 2 dell'art. 190 c.p.c. secondo cui le conclusionali devono contenere "le sole conclusioni già fissate dinanzi all'istruttore e il compiuto svolgimento delle ragioni di fatto e di diritto che le sorreggono": ciò anche in considerazione della rigidità delle conclusioni a seguito dell'introduzione delle preclusioni.

Sicché, se fossero intervenuti fatti nuovi, al più dovrebbe essere fatta istanza per la rimessione della causa in istruttoria, qualora essi comportino mutamento nelle conclusioni.

Dirò di più: il giudice potrebbe liquidare un quid superiore a quello che Voi, pur di spuntarla sul fronte dell'an debeatur, magari in preda ad un'enfasi autoriduttiva, dovuta al timor panico della potenziale soccombenza, quasi a lasciar trapelare, tra le righe del nostro scritto, al magistrato o collegio che dir si voglia un messaggio subliminale: "Guarda, vedi se puoi darmi ragione; poi sul quantum debeatur, pur mettendoTi una mano sulla coscienza per i sacrosanti diritti del danneggiato, sono pure disponibile ad una decurtazione".

Ed invece, no! Così non va: se si hanno buone ragioni, bisogna ottenere il massimo possibile, raschiando il barile liquidatorio sino al fondo, perché, in special modo se macroleso, il danneggiato che stiamo tutelando ha esigenze di lungo periodo e proiettate nel futuro.

In quel frangente, il nostro compito di avvocati è ancor più delicato del solito e possiamo incidere concretamente, con il nostro comportamento, sull'avvenire di quella sfortunata persona.

A buon intenditor: dobbiamo muoverci sempre sulla scorta del materiale probatorio che si avrà avuto la cura di raccogliere con diligenza ed alacrità nel corso dell'istruttoria e fruendo al massimo della potenzialità espansive delle memorie ex Art. 183 c.p.c. (di cui in altra, imminente evenienza si dovrà pur trattare).

Attenzione, però, al rischio insito nell'allestimento delle memorie stesse (un'arma a doppio taglio) e nella stesura delle conclusioni finali da sottoporre al giudice.

Io avvocato, forte di una giurisprudenza che in quel frangente mi appaia stabile, mi sento forte nel mio bozzolo di certezze (apparenti e precarie, ahimé).

Ma cova sempre qualche lapillo sotto la cenere vulcanica.

Guardate un po', giovandoVi delle fulgide espressioni scolpite da Patrizia Ziviz (insigne pubblicista dell'ateneo di Trieste e con il Prof. Paolo Cendon pioniera della figura del danno esistenziale) nel convegno di Macerata del 7 marzo 2014, pubblicate in questa rubrica il 10 marzo 2014, il testo rivoluzionario della sentenza dello scorso gennaio della Terza Sezione della S.C.: Cass., 23 gennaio 2014, n. 1361, Rel. Luigi Alessandro Scarano; già con Cass., Sez. III, 12 settembre 2011, n. 18641, Pres. Mario Rosario Morelli, rel. Giacomo Travaglino, tra le più raffinate penne del Palazzaccio, era terminato l'esilio del danno morale, che le Sez. Unite avevano reputato assorbito nella categoria omnicomprensiva del danno biologico dinamico.

Orbene, se io legale estensore delle difese risarcitorie di un malcapitato, all'atto della precisazione delle domande nelle fattezze dell'Art. 183 c.p.c. dovessi incautamente limitare il petitum solo ad alcune componenti di danno, allora il giudice a buon diritto potrebbe negare al mio patrocinato quelle voci che io avevo sì richiesto sinteticamente nel novero della formuletta-"tutti i danni", ma avevo poi ahimè ristretto - e quindi processualmente abbandonato! Quindi, si ritiene nel caso di mancata riproposizione di conclusioni specifiche già dedotte, normalmente si prese che siano rinunciate. - proprio sulla scorta della successiva, magari dotta rettificazione ancorata alle "tavole della legge" (copyright Patrizia Ziviz nell'incipit del suddetto articolo) delle quattro sentenze dell'11 novembre 2008, n. 26972 e seguenti emesse dalle Sezioni Unite, Est. Roberto Preden.

Tanto per intenderci: se l'attore o il ricorrente in citazione elenca analiticamente le voci di danno delle quali richiede il risarcimento, quelle non formulate ovvero non riproposte nel precisare le conclusioni debbono reputarsi a-b-b-a-n-d-o-n-a-t-e!

L'avvocato deve tenere sempre a mente che le sue personali tavole della legge sono friabili e si sgretolano molto facilmente.

Inoltre, l'avvocato, nella sua ansia da prestazione, procede spesso ...al buio: deve creare ...a braccio a fronte di innovazioni recentissime che non si sa, al momento in cui sta allestendo le prime difese, quali sviluppi e quali ricadute avranno.

Talvolta l'avvocato ha una fretta dannata (al cui confronto quella velocità di cui tanto si predica nell'attuale Governo Renzi, evidentemente in contrapposizione agli immobilismi regressivi e conservativi dei predecessori, è nulla) perché deve prevenire o parare i colpi di riforme in arrivo assai penalizzanti persino per i diritti ed i valori fondamentali della persona.

Addirittura, il legale è ossessionato dal pensiero ai pacchetti di riforme che si susseguono, talvolta orrendamente.

L'ultimo riferimento temporale è al naufragato tentativo di mini-riforma della r.c.a., contenuto nel decreto legge n. 145/2013 che mirava ad incidere in modo pregnante su alcuni aspetti molto pratici.

Si tratta di "privilegiare sempre la dimensione dell'umano, il rispetto totale dell'integrità e della dignità d'ogni persona ... ricostruire l'indispensabile cultura dei diritti, unico possibile contrasto al rischio di nuove vittime" come ha detto bene il Prof. Stefano Rodotà a commento su Repubblica del 1° maggio 2014 (pagine 1 e 29) dell'increscioso ed inquietante episodio dell'applauso durante una riunione del Sindacato di Polizia SAP agli agenti condannati con sentenza della Cassazione per la vicenda ferrarese dell'uccisione del giovane Aldrovandi; superfluo ricordare che l'art. 10 Cost., comma 1, recita che "l'ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute" e tali norme sovranazionali sono quelle introdotte dalla Costituzione Europea nella parte II sui diritti fondamentali dell'uomo e dalla Carta di Nizza recepita nel nuovo testo dell'art. 6 TUE, inserite nel Trattato di Lisbona ratificato dal nostro Paese con legge 2 agosto 2008, n. 190. La Carta di Nizza eleva a bene giuridico inviolabile della persona "il valore della dignità umana".

Siamo davvero nelle vene aperte del diritto e della pratica processuale civile: la disciplina della prescrizione e della decadenza, la disciplina della prova testimoniale, l'introduzione di una prova "a valutazione vincolata" rappresentata dalle risultanze della c.d. "scatola nera" (con effetto a cascata sulla profilazione del cliente-assicurato), il risarcimento in forma specifica (essendo diretto al conseguimento della eadem res dovuta al leso, tende a realizzare una forma più ampia e, di regola, più onerosa per il debitore, di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato; il che porta al consolidamento orientamento secondo cui il risarcimento del danno per equivalente costituisce un minus rispetto al risarcimento in forma specifica, cfr. Cass. 8.3.2006, n. 4925, Cass. 15.7.2005, n. 15021, Cass. 25.7.1997, n. 6985, con conseguente possibilità di modificare l'originaria domanda risarcitoria in forma specifica in domanda risarcitoria per equivalente, ma giammai il contrario) ed il valore tabellare del danno da morte, tutta una serie di problematiche imponenti da affrontare in avvenire, soltanto rinviate ad un disegno di legge autonomo perché il Governo Letta jr., in quei giorni di agonia che hanno preceduto l'avvento tumultuoso al governo del Paese di Matteo Renzi, già traballava vistosamente e non se l'è sentita di insistere oltre sulla conversione del decreto legge n. 145/2013 "Destinazione Italia", con tutto il suo armamentario eccentrico, in un muro contro muro con chi, come il MoVimento 5 Stelle e frange dello stesso raggruppamento del Primo Ministro, vi si opponeva efficacemente.

Il magistrato è avvantaggiato perché, quando emana il verdetto, ..."everything is illuminated - ogni cosa è illuminata" come il protagonista, eroe americanissimo, del romanzo (edito in Italia da Guanda nel 2002), con trasposizione cinematografica (2005) di Jonathan Safran Foer (nato a Washington nel '77 - "per vedere com'è, dovè cresciuto mio nonno, dove vivrei adesso se non fosse stato per la guerra", romanzo che menziona più volte Gad Lerner nel libro "Scintille", edito da Feltrinelli nel 2008 a proposito del suo viaggio, tappa a Leopoli o Lviv che dir si voglia, in Ucraina, da "turista della memoria").

Esempio pratico: allestisco di fretta e furia la citazione, poniamo perché il danno è prossimo alla prescrizione e lo spatium deliberandi è ampiamente fruito dalla compagnia assicurativa.

Richiedo tutti i danni con l'uso, dunque, della formula generica.

Poi, mi faccio prendere la mano dalla foga di sfoggiare una certa cultura (errore da non commettere mai! Il processo è strategia, non sfavillio di talento o scopiazzatura di quello degli altri), modifico la domanda ai sensi dell'Art. 183 c.p.c. certissimo che la giurisprudenza sarà sempre conforme alle sentenze gemelle delle Sezioni Unite di San Martino 2008, e zac!

Sono inchiodato: se nasce sotto qualche cavolo geneticamente modificato una nuova componente di danno, frutto di chissà quale futura elaborazione, mi sarò precluso il diritto a conseguire quella voce risarcitoria, pur sopraggiunta nelle more e, quindi, giuridicamente riconosciuta.

Tengo a rammentare che quando cominciai ad interessarmi seriamente ed assiduamente alla materia risarcitoria grazie all'incontro con il Prof. Fulvio Mastropaolo il danno biologico in pratica non esisteva oppure veniva svilito se non addirittura deriso.

Le teorizzazioni sulla liquidazione dei pregiudizi alla salute gravitavano all'incirca attorno al seguente concetto di stirpe e di censo: il figlio del notabile, per male che gli fosse andata, avrebbe avuto il suo radioso futuro ed il figliolo del poveretto avrebbe avuto dalla vita quel che si era cercato nascendo in quella spelonca.

Manco la dottrina medico-legale è d'accordo in rapporto alla tipologia dei danni tabellati ed al metodo, che attualmente ancora privilegia incredibilmente il soma e la funzionalità fisica rispetto alla psiche ed alla funzionalità intellettiva: proprio come la tendenza a dar più valore ai beni che alle persone, talvolta reificate.

Sappiamo quale impulso ha impresso all'aspetto del pregiudizio psicologico l'Avv. Gianmarco Cesari, vittimologo di chiara fama e legale dell'Associazione Italiana Familiari e Vittime della Strada onlus (senza dimenticare che l'Associazione si sta battendo da anni per l'introduzione in Italia dell'omicidio stradale ed appena il 29 aprile 2014 la Presidentessa Pina Cassaniti ne ha discusso su Rai1, all'interno del programma - contenitore UnoMattina, alla presenza del confermato Ministro dell'Interno On. Avv. Angelino Alfano).

Nessuno ancora valuta appieno il "dentro distratto dall'evidenza del "fuori".

Avviandoci alla conclusione, la richiesta dei danni nella loro omnicomprensività esprime la volontà di riferirsi ad ogni potenziale voce di danno.

Ritengo che questo sopra annotato in ordine al confezionamento delle conclusioni sia uno dei rari casi in cui nella nostra professione esser precisi, dilungandosi in prolisse elencazioni, non paga, anzi pare foriero soltanto di rogne e di guai.

Sono consapevole che v'è chi autorevolmente, come il Dott. Marco Rossetti della Sez. III della Cassazione Civile, sostiene in materia che "non può ritenersi appagante un principio che finisce per premiare chi è meno meticoloso".

Non ignoro tale confutazione del prestigioso Magistrato a lungo attivo presso il Tribunale di Roma, ove, già prima della riforma, ad esempio con la sentenza 14 aprile 2004, si era diffuso l'orientamento secondo cui "l'attore il quale chieda la condanna del convenuto al risarcimento di 'tutti i danni', derivati da un illecito aquiliano, ha l'onere di indicare a pena di inammissibilità della domanda, al più tardi entro il termine di cui all'art. 183, comma 5, c.p.c., quali siano i concreti pregiudizi dei quali chiede il ristoro, soprattutto per quanto attiene ai danni non patrimoniali, a causa della profonda evoluzione giurisprudenziale degli ultimi decenni in tale materia".

(Trib. Roma, 14 aprile 2004, in Giurispr. Romana, 2004, 287)

Addirittura, formulare richieste specifiche e meticolose ma carenti di una data voce, poniamo (come nella fattispecie proposta in disamina) il danno biologico, farebbe sì che l'eventuale domanda proposta in sede di impugnazione costituirebbe DOMANDA NUOVA, come tale inammissibile. Ove l'attore abbia proposto una domanda risarcitoria per imperizia del medico nell'esecuzione di un intervento chirurgico, costituisce, stando ad App. Venezia 23 giugno 2003, in Giurisprudenza di Merito, Giuffrè, 04, 1655, domanda nuova, come tale inammissibile, la deduzione di una responsabilità del medico per violazione del dovere di informazione del paziente sui rischi dell'intervento, trattandosi di richiesta fondata su una diversa causa petendi che introduce un diverso tema d'indagine.

Pongo anche in risalto che la tradizione dogmatica insegna cosa è mutatio.

"Si ha mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudizio un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatio quando si incida sulla causa petendi in modo che risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere".

(Cass., Sez. Lav., 27 luglio 2009, n. 17457)

Il sasso nello stagno è gettato.

Orsù, senza cadere nella faciloneria (l'avvocato non deve mai essere facilone, anche se talora rischia di passare per sciatto quando adotta una strategia), in tale materia Voi sentite di votare per il partito della sintesi o quello dell'elencazione analitica dei danni?

Resta il fatto che quando gli elementi materiali sono stati allegati, provati ovvero emergono da documenti prodotti nel rituale scambio dialettico, in nome dell'assetto teleologico delle forme, niente impedisce al giudice di liquidare quella voce che la parte si sia dimenticata di inserire nelle conclusioni, ma sia desumibile dal complesso delle sue difese e dell'armamentario istruttorio: ciò in virtù del cardinale valore dell'ermeneutica universale che porta il giudice, adoperando le illuminanti espressioni del togato del Tribunale di Piacenza con cui questo contributo si è aperto, "alla lettura congiunta di parte narrativa, conclusioni ed allegati della citazione".

La liquidazione del danno può avvenire in via equitativa.

L'art. 1226 c.c., ove combinato con il rinvio di cui all'art. 2056 c.c., contempla la possibilità per il giudice di valutare il danno in via equitativa ove non sia possibile determinarlo nel suo preciso ammontare.

Presupposto per tale facoltà è, dunque, l'impossibilità (o motivata, grande difficoltà) di ricercare la prova specifica non del danno, bensì del suo ammontare.

In giurisprudenza può farsi ricorso a liquidazione equitativa anche in assenza di apposita istanza di parte, e quindi d'ufficio.

(Cass., Sez. III, 11 novembre 2005, n. 22895)

Funzione, pertanto, della liquidazione equitativa del danno è quella di garantire il ristoro del leso anche laddove, provato il danno nella sua esistenza e ricorrenza, la parte interessata abbia tentato inefficacemente di offrire elementi idonei alla sua quantificazione ovvero si sia in concreto riscontrata una situazione di impossibilità o difficoltà di provarne l'ammontare.

Il giudice nella motivazione della decisione darà conto del processo logico che ha condotto a una determinata valutazione del danno, con l'esposizione, seppur sintetica, dei criteri ispiratori seguiti nella particolarità del caso concreto.

Terreno fertile per l'applicazione del criterio equitativo di determinazione del danno è quello del danno morale, ora inteso quale voce del danno non patrimoniale.

Il silenzio ambiguo (e qui non confondiamoci con il principio della non contestazione, ch'è altro concetto) non può mai intendersi quale rinuncia; una conferma autorevolissima, selezionata con la tecnica del rabdomante più che del giurista, ci giunge dalla Corte Suprema di Cassazione.

Pronunciando la sentenza n.17879 del 31 agosto 2011 - Presidente Alfonso AMATUCCI, Relatrice Adelaide AMENDOLA - la Terza Sezione Civile di Piazza Cavour al passo sub 5. dell'impianto motivazionale ove respinge il terzo motivo della MILANO Ass.ni, così si esprime: " ...la domanda si riferisce a TUTTE LE POSSIBILI VOCI di danno originate da quella condotta. Ora, è ben vero che tale principio soffre eccezioni nel caso in cui nell'atto introduttivo siano indicate e quantificate specifiche voci di danno, ma ciò sempre e solo nell'ipotesi in cui la specificazione si presti ad essere ragionevolmente intesa come volontà di escludere dal petitum le voci non menzionate, dovendo altrimenti alla stessa attribuirsi un valore meramente esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intende ottenere il ristoro".

Pertanto, come ricorda Raffaella Muroni, ricercatrice dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano che ha curato il commento all'art. 183 c.p.c. del Commentario Ipsoa al C.P.C. ora diretto (nella 5^ edizione) dal solo Prof. Claudio Consolo, edito da Wolters Kluwer nel 2013 (R. Muroni aveva stilato il commento al medesimo art. 183 c.p.c. anche nel Commentario del Codice di Procedura Civile di UtetGiuridica, 2012, 1^ ed., diretto da Luigi Paolo Comoglio, Claudio Consolo, Bruno Sassani e Romano Vaccarella, marchio parimenti concesso in licenza a Wolters Kluwer Italia S.r.l.), "nei giudizi di risarcimento dei danni alla persona tende a prevalere di recente l'orientamento secondo cui le singole voci di danno non sono fatti individuatori del diritto. Ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, è sufficiente che nella domanda sia stato fatto espresso riferimento a tale tipo di pregiudizio, senza limitazioni connesse solo ad alcune e non altre conseguenze da esso derivate, non avendo rilievo che l'attore abbia poi richiesto, solo in sede di conclusioni, il cosiddetto (n.d.r. = toglierei decisamente il c.d.!) danno esistenziale, il quale, pur costituendo sintagma ampiamente invalso nella prassi giudiziaria, non configura un'autonoma categoria di danno (Cass. 9.3.2012, n. 3718; in senso conf. Cass. 30.11.2011, n. 35575; più rigorosa invece Cass. 18.1.2012, n. 691 secondo cui le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta colpevole della controparte, produttiva di danni nella sfera giuridica di chi agisce in giudizio, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l'attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo; v. anche Cass. 24.8.2007, n. 17977; Cass. 27.6.2007, n. 14852).

Contano la reale volontà della parte e la finalità perseguita, che il giudice ha il potere - dovere di indagare ed il Dott. MORLINI ricorda espressamente che "il giudice del merito ha il potere-dovere di interpretare e qualificare la domanda, non essendo condizionato dalle formule utilizzate dalla parte, dovendo piuttosto tenere conto del contenuto sostanziale della pretesa così come desumibile dalla situazione dedotta in causa e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del giudizio, ...con l'unico limite di attenersi a petitum e causa petendi".

Ed allora andiamo a riprenderci la sentenza del Dr. Gianluigi Morlini ex art. 281-sexies c.p.c. del Tribunale Civile di Piacenza da cui emerge che la domanda giudiziale dev'essere interpretata con riferimento alla reale volontà della parte avuto riguardo alla finalità perseguita.

Rimangono da affrontare alcuni ulteriori aspetti.

Di recente la Corte di Cassazione ha cominciato una rivisitazione di tutti gli istituti ancorata al canone costituzionale del giusto processo di cui all'art. 111 Cost. con il diritto di difesa in condizioni di parità quale concetto fondamentale della riforma realizzata con la l. cost. n. 2/1999; introdotto prima per via pretoria dalla Cassazione a Sezioni Unite del 2002, 23 gennaio 2002, n. 761, e poi recepito dal legislatore con la L. n. 69/2009 del 18 giugno 2009, recante disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, occorre fare i conti anche con il nuovo art. 115 c.p.c. - principio di non contestazione.
Si potrebbe allora sostenere in una lettura evolutiva che, in un sistema così congegnato e rivisitato, una analitica esposizione del petitum ed, in particolare, dei tipi di danno dei quali si chiede il ristoro è essenziale ed opportuna per consentire al convenuto una corretta difesa.

Diversamente il convenuto sarebbe costretto in comparsa di costituzione e di risposta ad una defatigante difesa alla cieca.

Ad esempio, se l'attore ha subìto lesioni personali e domanda il risarcimento utilizzando la formula generica di "tutti i danni risentiti nell'occorso", per il convenuto è essenziale sapere se la controparte intenda invocare o meno il ristoro del danno da perdita del guadagno o della capacità di produrlo: in caso affermativo, infatti, le eccezioni astrattamente opponibili all'attore (la compensatio lucri cum damno per esser stato tenuto indenne dall'assicuratore sociale, l'aliunde perceptum per avere svolto un altro e differente lavoro, il difetto di nesso di causalità perché le lesioni personali non hanno incidenza sulla capacità di guadagno) sono totalmente diverse da quelle che il convenuto dovrebbe sollevare per contrastare soltanto una domanda di ristoro del danno biologico.

Vedi:  CONCLUSIONI - Come formularle (seconda parte)

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