Confermato dalla Suprema Corte l'obbligo di rilascio da parte dell'uomo con la condanna al risarcimento di 16mila euro a favore della ex

di Marina Crisafi - Il coniuge che occupa la casa in comproprietà con l'ex è tenuto a rilasciarla e a risarcire i danni. È questo in sintesi quanto emerge dalla sentenza n. 19488/2015, pubblicata ieri (qui sotto allegata), con la quale la seconda sezione civile della Cassazione ha respinto il ricorso di un uomo cui l'ex moglie chiedeva il rilascio della casa, già adibita ad abitazione familiare, e a pagarle un'indennità per l'occupazione.

Vedendo rigettate le proprie istanze dal tribunale di Napoli in primo grado e dalla Corte d'appello in secondo - che ordinavano il rilascio del bene nella libera disponibilità di entrambi i partecipanti alla comunione e lo condannavano al pagamento di 16mila euro (pari al 50% del valore locativo dell'immobile dal passaggio in giudicato della sentenza di divorzio alla data della pronuncia) - l'uomo ricorreva in Cassazione, deducendo l'inammissibilità della richiesta di rilascio di un bene comune avanzata da un comproprietario nei confronti dell'altro che è nel godimento del bene.

Ma la Cassazione la pensa diversamente e dichiara le istanze infondate.

La Corte d'appello partenopea, infatti, per i giudici di legittimità si è espressa in linea con i principi di diritto da tempo invalsi in giurisprudenza (cfr. Cass. n. 7197/2014; Cass. n. 19929/2008).

Invero, hanno affermato gli Ermellini, "nel caso di concessione di un bene in locazione ad uno dei comproprietari, venuto a conclusione il rapporto locatizio per scadenza del termine o per la pronuncia della sua risoluzione per inadempimento del conduttore, il predetto bene deve essere restituito alla comunione per consentire alla stessa di disporne e, attraverso la sua maggioranza, di esercitare la facoltà di goderne direttamente o indirettamente".

Ne consegue che il conduttore-comproprietario può essere condannato al rilascio del bene medesimo in favore della comunione.

La situazione che viene a crearsi, hanno ragionato da piazza Cavour, "è identica a quella in cui sia venuta meno la ragione giustificatrice di un uso autonomo da parte di uno dei due comproprietari e tuttavia questi sia rimasto nel godimento esclusivo del bene". In una tale situazione, ad essere ordinato non è il rilascio di una "quota ideale" da un comproprietario all'altro, ma il rilascio in favore della comunione, "condizione che legittima, con l'accertamento dell'inesistenza di un titolo a detenere autonomamente il bene, la successiva assunzione, da parte della comunione, delle determinazioni possibili, anche con lo strumento di cui all'art. 1105 c.c.".

Né regge, per gli Ermellini, la tesi sostenuta dall'uomo di un "uso legittimo della cosa comune", teso non certo a impedire all'ex di godere dell'immobile secondo il suo diritto, la quale invece non lo aveva mai esercitato, non chiedendo la divisione o lo scioglimento della comunione o la suddivisione del godimento. Per la S.C. si tratta, invero, di una tesi "grottesca", considerato che l'uomo si era praticamente installato nella dimora insieme al nuovo nucleo familiare, rendendo di fatto improponibile l'uso congiunto da parte dell'ex moglie, visto e considerato che tra l'altro si trattava di un appartamento di 100 mq, con una cucina e un solo bagno.

Per cui, hanno concluso dal Palazzaccio, l'ex marito ha fatto "abuso e non uso legittimo del suo diritto di comproprietario", travalicando le facoltà di cui all'art. 1102 c.c. e impedendo con la sua condotta all'ex moglie di far parimenti uso del bene, mentre bene ha fatto la donna a chiedere il rilascio dell'alloggio oltre al pagamento di un'indennità per l'occupazione con decorrenza dal passaggio in giudicato della sentenza di divorzio.

All'uomo, quindi, non rimane che pagare i 16mila euro all'ex moglie oltre alle spese di lite.

Cassazione, sentenza n. 19488/2015

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