Nello scorso settembre 2006 la Corte di Cassazione è tornata nuovamente sul tema dei danni derivanti da mobbing con due sentenze (n. 19965/2006 e n. 20616/2006) che si mantengono nel solco tracciato dalla precedente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, n. 6572 del 24 marzo 2006. Già allora la Corte, pronunciatasi su un'ipotesi di dequalificazione professionale, aveva delineato un quadro molto chiaro delle voci di danno risarcibili e aveva nel contempo precisato che sul lavoratore incombe l'onere di procedere ad un'allegazione puntuale dei danni patiti e ad un'altrettanto circostanziata dimostrazione della loro sussistenza e gravità. Nella prima delle due sentenze più recenti la Corte nega il risarcimento del danno esistenziale
ad un dipendente che assumeva di essere stato ingiustamente demansionato e, successivamente, addirittura licenziato proprio adducendo la mancanza di una prova specifica. Nel decidere in tal senso la Corte richiama uno dei principi cardine contenuti nella sentenza 6572 del 2006: "In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico, esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento
datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove". Nella seconda pronuncia la Corte riconosce la risarcibilità del danno alla professionalità da parte di un dirigente in posizione di vertice e nel pieno della carriera professionale totalmente e repentinamente privato di qualsiasi mansione e costretto per mesi ad una forzata inattività. Spiega che è innegabile che tale condotta abbia cagionato "un'apprezzabile lesione al prestigio professionale di grado elevato inerente la posizione dirigenziale rivestita all'interno dell'ambiente di lavoro ed alla dignità del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo" ed è altrettanto innegabile che debba ritenersi "accertata la sussistenza di un danno da demansionamento nella componente lesiva di un danno alla professionalità, quale bene immateriale inerente all'esplicazione dei diritti della personalità sul luogo di lavoro". La Corte esclude, però, la risarcibilità di altre voci di danno, "quali la perdita di concrete chances di progressione lavorativa e di concorrenzialità sul mercato del lavoro, che, al pari delle ulteriori lesioni alla integrità psicofisica del lavoratore, avrebbero dovuto essere specificamente provate dal lavoratore".

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