La legge di stabilità tende a frapporre ostacoli, alcuni insormontabili, alle richieste di indennizzo per l'eccessiva durata dei processi

Avv. Paolo Accoti - La legge 24 marzo 2001, n. 89, cd. legge Pinto, nell'attuale formulazione (a seguito delle modifiche introdotte dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 e, successivamente, dalla  L. 6 giugno 2013, n. 64), ha introdotto la previsione dell'equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo. 

Pertanto, chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per la violazione dell'anzidetto termine, ha diritto ad una equa riparazione.

La violazione deve essere accertata dal giudicante valutata la complessità del caso, l'oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Per quanto riguarda la tempistica, si considera rispettato il termine ragionevole se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità, in ogni caso, si considera rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.

Non è riconosciuto alcun indennizzo: a) in favore della parte soccombente condannata per responsabilità aggravata (art. 96 c.p.c.); b) se viene accolta la domanda giudiziale in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa (art. 91 c.p.c.); c) in caso di accoglimento della domanda giudiziale nella misura corrispondente alla proposta di mediazione rifiutata (art. 13 L. 28/2010; d) nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; e) quando l'imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini sopra visti; f) in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento.

Per quanto concerne la misura dell'indennità, questa viene determinata dal giudice con una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine di ragionevole durata del processo. L'indennizzo viene determinato in relazione dell'esito del processo nel quale si è verificata la violazione, del comportamento del giudice e delle parti, della natura degli interessi coinvolti, del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte.

In ogni caso, la misura dell'indennizzo, non può essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice.

Con la legge di stabilità 2016 (Disegno di legge, 25/10/2015, n. 2111), approvato in Senato il 27 novembre 2015, ed ora all'esame della Camera dei Deputati, sono state previste sostanziose modifiche alla legge Pinto.

Indubbiamente, il testo predisposto dal Consiglio dei Ministri, per come già licenziato al Senato, prevede una serie di "ostacoli", alcuni difficilmente superabili, per poter ottenere l'agognato risarcimento a seguito dell'irragionevole durata del processo, per il quale peraltro sono state stabilite anche delle riduzioni al tetto massimo indennizzabile.

Tanto "al fine di razionalizzare i costi", un'espressione che addirittura appare beffarda, in considerazione del fatto che questi - gioco forza - graverebbero esclusivamente a carico degli utenti della giustizia che hanno subito l'irragionevole durata del processo e che magari non si trovano nelle condizione di poter ottenere un equo indennizo.

L'art. 1-ter, prevede la necessità per la parte in giudizio di esperire "rimedi preventivi", vale a dire, nei processi civili, l'introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis e seguenti c.p.c. ovvero formulare richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell'articolo 183-bis del codice di procedura civile, entro l'udienza di trattazione e, comunque, almeno sei mesi prima che siano trascorsi tre anni in primo grado. Nelle cause in cui non si applica il rito sommario di cognizione, ivi comprese quelle in grado di appello, costituisce rimedio preventivo proporre istanza di decisione a seguito di trattazione orale (art. 281-sexies c.p.c.), almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'art. 2 comma 2 bis (tre anni in primo grado, due in secondo).

Sono rimedi preventivi: nei giudizi penali, il deposito di un'istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini all'articolo 2, comma 2-bis (tre anni in primo grado, due anni in secondo); nei giudizi dinanzi al giudice amministrativo la presentazione dell'istanza di prelievo, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2-bis; nel procedimento contabile e nei giudizi di natura pensionistica davanti alla Corte dei conti il deposito di un'istanza di accelerazione, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2-bis; nei giudizi davanti alla Corte di cassazione il deposito un'istanza di accelerazione almeno due mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2-bis (un anno nel giudizio di legittimità).

Le conseguenze in merito al mancato esperimento dei "rimedi preventivi", non sono di poco conto, atteso che la domanda di equa riparazione in merito all'irragionevole durata del processo risulterebbe inammissibile (art. 2, comma 1), pertanto, detti rimedi risulterebbero obbligatori.

Con la formulazione dei predetti "rimedi preventivi" nel processo civile, sembrerebbe che il legislatore abbia voluto quasi imporre l'utilizzo del rito sommario di cognizione, ex art. 702 c.p.c., salvo nei casi in cui lo stesso, per esplicita previsione normativa, risulterebbe inapplicabile (cause dinnanzi al giudice di pace; dinnanzi al tribunale in composizione collegiale; riti speciali: lavoro, locatizio, ecc.).

Questa sorta di imposizione alla scelta di detto rito, come l'ulteriore previsione della richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito di cognizione sommario cozza, tuttavia, con la realtà processuale.

Ed invero, il rito sommario è generalmente caratterizzato dall'evidenza della prova, spesso documentale (leggi: "La proponibilità della domanda cautelare nel corso di un giudizio sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. Il caso De Luca"), di talché lo stesso risulta inconciliabile in tutte quelle situazioni, la stragrande maggioranza, in cui per l'accoglimento della domanda giudiziale, o per resistervi, vi sia necessità di istruire la causa, magari con l'escussione di testimoni ovvero con la richiesta di consulenza tecnica d'ufficio, in ragione del riparto dell'onere probatorio. 

Ciò posto, vincolare le parti in causa all'utilizzo di tale rito sommario di cognizione da un verso, in caso di scelta diversa, potrebbe escludere alla radice qualsivoglia futura ipotesi di indennizzo per eccesiva durata del processo, dall'altra esporrebbe le stesse parti e, per essi, i rispettivi legali, ad avviare domande giudiziarie in cui il rischio di non raggiungere la prova del diritto è elevatissimo in carenza di adeguata istruttoria.

In disparte il problema relativo a tutti quei giudizi in cui il rito sommario di cognizione risulta incompatibile, al pari della richiesta di trattazione orale della causa ex art. 281-sexies c.p.c., come ad esempio nelle cause di lavoro, per il quale risulterebbe impossibile l'esperimento dei cd. rimedi preventivi.

Inoltre, negli altri procedimenti (penale, amministrativo, ecc.), collegare la possibilità del risarcimento da eccesiva durata del processo al deposito di un'istanza di "accelerazione", risulterebbe retorico, oltre che artificioso.

Ciò, infatti, equivarrebbe a dire che il Magistrato, cui spetta la conduzione dell'udienza, oltre che la scansione temporale delle udienze, non fissa le stesse in ragione del carico di lavoro - quasi sempre ai limiti dell'umano - e pertanto in virtù dell'effettive esigenze di ruolo giudiziario, atteso che, secondo il legislatore, basterebbe una mera istanza acceleratoria per anticipare le udienze.

Tanto a dimostrazione del fatto che chi formula tali proposte di legge o non conosce i reali carichi di lavoro degli organi giudiziari ovvero ritiene che la fissazione delle udienze, cosi dilatate nel tempo, siano ingiustificate.

Peraltro, la nuova formulazione dell'art. 2, comma 2-quinquies, escluderebbe alla radice qualsivoglia indennizzo, oltre che nelle attuali ipotesi sopra viste e che si riportano (in favore della parte soccombente condannata per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.; b) se viene accolta la domanda giudiziale in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa (art. 91 c.p.c.); c) in caso di accoglimento della domanda giudiziale nella misura corrispondente alla proposta di mediazione rifiutata (art. 13 L. 28/2010; d) nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; e) quando l'imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini sopra visti; f) in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento), ora anche in danno della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all'articolo 96 c.p.c.

Ebbene l'indeterminatezza di tale previsione è cosi manifesta che risulta di difficile comprensione.

Ed invero, l'ipotesi di abuso processuale di cui all'art. 96 c.p.c., per come unanimemente riconosciuto, concede al giudice un potere ampiamente discrezionale di cui, peraltro, risultano incerti anche i presupposti per la concreta applicabilità.

Ciò posto, prevedere l'esclusione dell'indennizzo da eccessiva durata del processo, anche al di fuori delle già incerte ipotesi di cui all'art. 96 c.p.c., è come cristallizzare la possibilità di una ulteriore discrezionalità su una valutazione già di per sé discrezionale.

In altri termini, con una valutazione così abnormemente discrezionale, si corre il rischio di escludere alla radice qualsiasi ipotesi di indennizzo ovvero di creare delle inaccettabili disparità di trattamento, con decisioni diametralmente opposte rese in casi identici, in relazione al grado di discrezionalità di cui è portatore questo o quel giudicante.

Inoltre, per non farci mancare nulla, rispetto all'attuale formulazione è prevista una riduzione delle somme liquidabili a titolo di risarcimento per eccessiva durata del processo.

Infatti, con la legge di stabilità 2016, le somme che il giudice può liquidare a titolo di equa riparazione, sono ridotte a una somma di denaro non inferiore a euro 400 e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo, con possibilità di incrementare detta somma fino al 20 per cento per gli anni successivi al terzo e fino al 40 per cento per gli anni successivi al settimo, e possibilità di riduzione fino al 20 per cento quando le parti del processo presupposto sono più di dieci e fino al 40 per cento quando le parti del processo sono più di cinquanta, con diminuzione fino a un terzo in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce (art. 2 bis).

Infine, per quanto concerne la competenza territoriale e per materia nonchè il contenuto della domanda, viene stabilito che la stessa si propone con ricorso al Presidente della Corte d'Appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto e la domanda, che avrà la forma del ricorso, deve indicare l'ufficio giudiziario, le parti, l'oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni, ai sensi dell'art. 125 c.p.c. 


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