- La posizione delle parti
- L'insolito percorso della Consulenza di Ufficio
- I contenuti dell'ordinanza
- Analisi della vicenda
- Il senso generale dei singoli comportamenti
- Conclusioni
La posizione delle parti
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Un legame ultratrentennale va in pezzi nel 2017 per iniziativa della moglie, che propone al tribunale ordinario di Genova di decretarne la fine. Per disciplinare i rapporti successivi con le figlie (allora di 13 e 9 anni) la signora propone un affidamento "congiunto", i cui principali contenuti prevedono che le figlie trascorrano con il padre w-e alternati dal venerdì sera alla domenica sera, "almeno" un pomeriggio alla settimana (fino alle 20) e due settimane in estate. Mantenimento delle figlie secondo tradizione, ovvero assegno (di 800,00 €), più il 50% delle cosiddette "spese straordinarie". In aggiunta, assegnazione a se stessa della casa familiare.
L'opposizione del padre presenta immediatamente notevoli spunti di interesse. Anzitutto, essendo avvocato, non assume difensori, ma decide di provvedere da solo. In aggiunta non polemizza affatto nei confronti della moglie, alla quale riconosce ottime qualità personali, e chiede che si effettui un serio tentativo di riconciliazione, ritenendo che la conjugalis affectio non sia del tutto esaurita. In caso di insuccesso propone una frequentazione paritetica, attuando il cosiddetto "modello del nido", con i figli che restano nella casa familiare e i genitori che si alternano presso di loro di settimana in settimana. Per la parte economica propone quello che chiama "mantenimento diretto" (ma che in effetti a rigore non lo è), ovvero sostiene che, essendo i coniugi indipendenti economicamente e i tempi della presenza uguali, si potrà sopprimere il contributo mediante assegno dividendo al 50% le spese sia ordinarie che straordinarie.
L'insolito percorso della Consulenza di Ufficio
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Fallita la ricomposizione del nucleo familiare, ancora in fase presidenziale viene disposta CTU, esibendo anche questo passaggio insolite e illuminate caratteristiche. Difatti, "nulla eccependo i difensori, il CTU veniva invitato ad esperire, in via preliminare, un tentativo di mediazione, allo scopo di verificare la possibilità per i coniugi di superare il conflitto e, quindi, di trovare un'intesa tale da rendere superfluo lo svolgimento delle operazioni peritali." In altre parole, anziché segnalare alle parti la possibilità di una mediazione, all'esito (negativo) della quale procedere con una consulenza, le due procedure venivano saldate assieme, rimettendole allo stesso perito, con evidente economia processuale.
Inizia così il dialogo tra le parti, tutto sommato fruttuoso, visto che nella sua prima relazione, precedente all'inizio delle operazioni peritali, il Consulente informa (e la coppia in udienza conferma) che già da alcuni mesi è stato messo sorprendentemente in pratica, per accordi diretti, un regime di frequentazione che in sostanza corrisponde a quello proposto dal padre, salvo essere "ammorbidito dalla previsione di alcune "finestre", nel senso che, durante la settimana, il genitore non destinatario dell'accudimento delle figlie aveva comunque la possibilità di trascorrere un pomeriggio o, comunque, un certo numero di ore con le figlie o con una di esse, ciò almeno un paio di volte alla settimana". Resta il fatto che la madre insiste per avere uno spazio maggiore di quello del padre e questi per una frequentazione paritetica. Il giudice allora (udienza del 14.1.2019, nel corso della quale vengono sentite nuovamente le parti), nel desiderio di accertare quale modello meglio corrispondesse alle esigenze delle figlie, dispone che inizino finalmente le operazioni peritali, nel corso delle quali respinge la richiesta della ricorrente di ottenere l'autorizzazione a vivere separati.
Finalmente (giugno 2019), il CTU deposita le proprie conclusioni, che prevedevano l'assegnazione temporanea alla madre della casa familiare (se ne sarebbe allontanata appena trovato un nuovo alloggio) e che "entrambi i genitori potessero tenere con loro le figlie a week end alternati (dal venerdì pomeriggio e fino al lunedì mattina con accompagnamento a scuola) e che il padre avrebbe potuto trascorrere con le figlie due pomeriggi seguiti da pernottamenti nella settimana in cui il week end è di pertinenza materna, e due pomeriggi "non consecutivi" … nella settimana in cui il week end è di pertinenza paterna. Per il resto, festività alternate, e durante il periodo estivo (non scolastico) 30 giorni con il padre anche non consecutivi". Conclusioni accolte in toto dalla madre, che aggiunge ad esse le proprie richieste economiche, mentre il padre le contesta, ma solo limitatamente alla frequentazione. Anzi, riferisce il CTU senza essere smentito, che nel corso della perizia il padre ha ritenuto opportuno un contributo da parte propria di "circa 500,00-600,00 euro mensili in favore delle figlie, contribuendo anche "ad un onere abitativo" ".
I contenuti dell'ordinanza
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Si giunge così ai provvedimenti detti "provvisori e urgenti", dopo circa un anno e mezzo di fase presidenziale, nel corso della quale nulla è stato trascurato per emettere un giudizio consapevole ed efficace, evitando soluzioni routinarie.
Anzitutto, quindi, visto anche il regime di separazione dei beni e la separazione di fatto, giunge l'ufficiale autorizzazione a vivere separati. Si pone, quindi, il problema dell'assegnazione della casa familiare, che è nella disponibilità del padre, pur non essendo di sua proprietà. E su questo, nuovamente, la decisione è contro corrente. Anzitutto si rileva la contraddizione di parte materna che comunica di essersi procurata un nuovo alloggio - che avrebbe occupato nell'arco di qualche mese - per sostenere la tesi del "normale" regime a w-e alternati e diritto di visita, abbandonando quello del nido, e tuttavia chiede che le venga assegnata la casa familiare. Dal che il TO deduce che l'assegnazione dovrebbe essere a titolo provvisorio, ma immediato, in attesa del trasloco nella nuova casa. Richiesta che il decidente respinge, per una serie di motivi che illustra. Con molta finezza psicologica, infatti, si evidenzia che quell'ambiente, luogo di tristi memorie, non ha nulla di invitante per la signora, così come, a maggior ragione non le piace il modello del nido che in qualche misura ne prosegue le modalità. Tuttavia non ritiene opportuno privilegiare così nettamente come richiesto la prevalenza materna. Anche perché non condivide l'analisi di un disagio delle figlie, attribuibile al padre, che gli viene sottoposto dalla parte e dallo stesso CTU, che richiederebbe una prevalente presenza materna.
Quanto gli viene sottoposto soffre, in effetti, di notevoli incoerenze che il giudice non manca di rilevare. Il consulente di ufficio segue quello di parte materna nel segnalare un preoccupante disagio nella figlia più grande, che avrebbe grosse difficoltà di rapporto con il padre. Tuttavia, la madre giustifica la propria richiesta di essere genitore prevalente sostenendo l'esistenza di un malessere nella figlia minore. Ancor più curiosamente, il collegio peritale concorda nel rilevare che il consistente periodo di frequentazione paritetica ha fatto sensibilmente migliorare i rapporti tra il padre e le figlie, entrambe, con apprezzabile diminuzione delle tensioni familiari. Ammirevole in una situazione del genere l'equilibrio mostrato dal giudicante, il quale non manca di rilevare tutte le contraddizioni sopra accennate, alle quali aggiunge che, in realtà, la condizione di malessere denunciata appare decisamente e di gran lunga inferiore al livello segnalato. In breve, e in concreto, viene riferito un solo episodio di "scontro" tra il padre la figlia maggiore, che il tribunale oltretutto giudica pressoché fisiologico all'interno della dialettica di un figlio adolescente con i propri genitori.
È pur vero, tuttavia, che, andando a guardare il provvedimento, il presidente con comprensibile prudenza tiene conto di queste segnalazioni e delle conseguenti richieste, anche se in misura leggerissima, come del resto aveva fatto anche il CTU. Il presidente, infatti, considera la proposta, ma afferma esplicitamente di non sentirsi vincolato a tradurla in provvedimento. E anche questo è un atteggiamento abbastanza insolito. La decisione, difatti, viene spezzata in due parti. Assegna la casa al padre, mantenendo provvisoriamente il modello del nido a settimane alternate, anche in forza di umanissime considerazioni circa la difficoltà del padre a procurarsi un secondo alloggio, che la madre invece sta per procurarsi. Tuttavia resta condizionato dalle reiterate segnalazioni di potenziale disagio delle figlie. Pur usando giri di parole che lasciano intendere che ci creda molto relativamente, introduce vari piccoli sottocasi che differenziano la posizione dei due genitori a favore della madre. Poi, quando la madre si sarà trasferita, il regime diventerà quello tradizionale e le figlie "potranno ruotare su due diverse abitazioni": presumibilmente con lo stesso calendario. Vengono anche sviluppate nel provvedimento estese valutazioni di carattere sociologico sui comportamenti abituali dei padri, quasi che il giudicante sentisse il bisogno di giustificare più a se stesso che ai destinatari del provvedimento i motivi del suo discostarsi da una prassi tradizionale (la cosiddetta maternal preference) fino a quel momento da lui stesso prevalentemente seguita nella sua attività di giudice. E anche questa parte, proprio perché decisamente metagiuridica, è di particolare interesse, visto che molto raramente il magistrato che assume la decisione ne fornisce così estesamente il motivo, addirittura inquadrandolo nella sua visione sociale, nella sua ideologia.
Non diversamente, il provvedimento economico, pur essendo estremamente simili le situazioni dei due genitori per reddito (36.000 a 30.000 € annui) e per tempo trascorso con le figlie, privilegia decisamente la madre, a favore della quale è disposto anche un contributo per le spese abitative, che il padre probabilmente non ha (è un aspetto poco chiaro, perché in realtà quel genitore non è proprietario esclusivo della casa familiare, ma fruisce della possibilità di abitarla in solido con altri soggetti, verso i quali probabilmente resta economicamente obbligato). Resta il fatto che il padre stesso si era dichiarato disponibile a soccorrere il coniuge con cifre molto simili e che gli aspetti economici nella vertenza non avevano mai rappresentato un ostacolo di difficile superamento.
L'ordinanza si completa, sempre nell'ottica della prudenza, con la nomina di un curatore speciale con lo scopo di attivare un soggetto istituzionale "terzo" che possa formarsi un diverso punto di vista e che, dopo avere incontrato i genitori e le minori (se del caso avvalendosi dell'apporto di uno psicologo di fiducia), ed avere esaminato il materiale rinvenibile negli atti di causa, possa rappresentare al giudice quelle che, a suo avviso, costituiscono le soluzioni migliori di collocazione e di frequentazione nell'esclusivo interesse delle figlie. Infine, si auspica che i coniugi siano d'accordo nel ricorrere ad un coordinatore genitoriale che possa dirimere futuri contrasti.
Analisi della vicenda
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Anche se singolarmente prese la varie caratteristiche della vicenda non rappresentano una novità assoluta, è del tutto insolito trovare così tanti elementi imprevedibili riuniti tutti insieme, come il lettore avrà già avvertito dalla narrativa. Rarissimo che una della parti si difenda da sola, che non aggredisca la "controparte" ma ne riconosca i meriti, che non faccia questioni di denaro, ma spontaneamente metta a disposizione dell'altra somme vicinissime a quelle poi decise dal giudice; rara l'applicazione del modello del nido e davvero insolito che accetti liberamente di sperimentarla il genitore che processualmente insiste per soluzioni sbilanciate. Ed eccezionali la durata della fase presidenziale (circa un anno e mezzo), l'ampiezza della motivazione, la lunga posticipazione dell'autorizzazione a vivere separati a dispetto della situazione di fatto (evidentemente nella speranza di una riconciliazione), il numero e la sequenza degli strumenti utilizzati (mediazione, CTU, curatore speciale, fino all'ipotesi di futura coordinazione genitoriale.
Tutti i protagonisti della vicenda meritano quindi soprattutto apprezzamento. Per cui, dopo la dovuta sottolineatura, appare più interessante analizzare le criticità residue.
Per quanto riguarda la madre si nota anzitutto un'idea non limpida di ciò che costituisce un affidamento condiviso. Non a caso l'istituto viene definito "congiunto". Ma soprattutto difetta la sostanza: la sua proposta di frequentazione prevede quattro pernottamenti presso il padre nell'arco di quattro settimane uno schema a malapena ipotizzabile al tempo dell'affidamento esclusivo.
Altrettanto confuse, del resto, appaiono le idee del padre in materia di mantenimento. Chiede, si, inizialmente il mantenimento diretto, ma lo definisce senza rispettarne i reali contenuti, ovvero limitandolo alla soppressione dell'assegno. Lo si nota subito, poiché lo ritiene subordinato alla parità dei redditi. E ulteriormente, dimostra di non avere compreso in che cosa effettivamente consista nel momento in cui lo accompagna con la divisione al 50% delle cosiddette "spese straordinarie". Per "spese straordinarie" si intendono infatti "gli oneri anche prevedibili non compresi nell'assegno": il che vuol dire che l'assegno ci deve essere per forza. Viceversa, nel modello del mantenimento diretto tutte le spese prevedibili vengono assegnate e ripartite fra i genitori immediatamente, in proporzione delle risorse rispettive, per effetto del provvedimento, rimanendo fuori solo le voci imprevedibili. In questo modo si evita il braccio di ferro su chi decide la spesa nonché il macchinoso e conflittuale meccanismo dei preavvisi e dei rimborsi; si cala nella quotidianità la partecipazione alla vita dei figli di entrambi i genitori; si prevengono contestazioni e in genere situazioni altamente conflittuali. Considerazioni tutt'altro che teoriche. Infatti, la scarsa conoscenza dell'argomento ha fatto perdere a quel padre i vantaggi relazionali della modalità diretta, che invece nella fattispecie sarebbe stata particolarmente indicata, meglio alimentando il rapporto del padre con le due figlie con tutta probabilità superando più velocemente gli stati di tensione ai quali è fatto riferimento nella CTU.
Criticità del genere, d'altra parte, emergono anche nel provvedimento del tribunale, che conserva l'assegno e ad esso aggiunge un contributo per l'onere abitativo anziché compensarla mediante l'attribuzione al padre di qualche capitolo di spesa in più, o di spese più pesanti. Dispiace questa decisione anche perché quel padre viene esplicitamente assolto da un sospetto di natura "sociologica" che l'estensore nutre: "Per completezza va detto che, in talune separazioni, laddove padri in passato disimpegnati nei confronti della prole chiedono contestualmente una paritaria frequentazione dei figli e la "contribuzione diretta", si ha sovente il sospetto che tale richiesta sia legata all'auspicio di ricavare da ciò essenzialmente un beneficio di natura patrimoniale, vale a dire appunto l'omessa previsione di un contributo economico a titolo di mantenimento della prole. La fattispecie in esame, invece, non appare riconducibile a tali situazioni…". Una analisi che non appare condivisibile per due ordini di ragioni. Anzitutto, è naturale che al momento della separazione, cambiando radicalmente l'assetto familiare interno e cessando la divisione dei ruoli, un padre che svolgeva essenzialmente il compito di procacciatore di risorse, rappresentato e "coperto" dalla moglie nei ruoli familiari, voglia e debba aumentare la propria presenza e assumere anche funzioni di accudimento e quindi ne chieda al giudice l'opportunità. Viceversa, se davvero un buon numero di padri pensa che la forma del mantenimento ne cambi la misura vuol dire che il legale di riferimento non li ha informati correttamente. Ammettendo che la prole costi 1000, quei 1000 potranno essere spesi direttamente o versati in tutto o in parte all'altro genitore mediante assegno: ma sempre 1000 rimangono. Quindi non si risparmia niente. E' poi del tutto pacifico, ma nulla cambia, che passando dall'assegno al mantenimento diretto il genitore onerato abbia la possibilità, fruendo di economie di scale, prestiti di amici e/o doni di parenti, di risparmiare qualcosa rispetto a quello che avrebbe corrisposto nel caso di mantenimento indiretto. E', difatti, esattamente la stessa cosa che può avvenire a parti invertite: ossia si incassa 1000 per i figli, ma si riesce a spenderne solo 800, lucrandone 200. In definitiva la divisione tra i due genitori di compiti di cura comprensivi della parte economica permette a entrambi i genitori di realizzare delle economie, a tutto vantaggio del bilancio familiare nel suo complesso. Comunque, visto che sul punto le parti avevano raggiunto senza difficoltà un accordo pressoché totale è assolutamente comprensibile che non sia stato toccato.
Rimanendo nel campo delle valutazioni concrete, se il padre con un regime a due case ha difficoltà economiche (non si scarta quello tradizionale anche perché lui non dispone di un secondo alloggio?), come può sostenerne uno che richiede tre abitazioni (padre, madre, figli)? Evidentemente, il padre - e anche la madre - si appoggia alla famiglia di origine. Ma tutto questo è solo un'ipotesi.
Si nota invece, curiosamente, che la comprensione per le difficoltà della signora a restare entro un'abitazione testimone di sofferenze e liti non viene utilizzata anche per far cadere nei confronti delle figlie quel a priori che lo scrivente considera giustamente non fondato, quanto meno nella sua rigidità, che va sotto il nome di "principio di conservazione dell'habitat". Anche un figlio considera spesso molto sgradevole restare in un ambiente popolato da spettri del passato, testimone di liti, silenzi e dissapori. In altre parole chi scrive ritiene che l'assegnazione della casa familiare al genitore che passa più tempo con i figli, fatta in nome di un loro sicuro vantaggio, debba invece essere verificata caso per caso; come del resto, facendo attenzione, lo stesso articolo 337 sexies c.c. prevede (vi si legge infatti che l'assegnazione deve avvenire tenendo conto prioritariamente dell'interesse dei figli e non che questo interesse consiste sicuramente nel rimanere nella casa familiare: potrebbe anche convenire loro andarsene da lì). L'automatismo, del resto, è tesi della ricorrente che il giudicante saggiamente respinge.
Resta il fatto che il limite più serio nel provvedimento del tribunale è da vedere nella conservazione di asimmetrie nella situazione dei genitori. Lo sbilanciamento, per quanto piccolo, induce di regola atteggiamenti e comportamenti sbagliati, spiacevoli soprattutto in una situazione come questa nella quale si poteva ottenere il 100% della "civiltà". Le ricadute dello sbilanciamento, in effetti, sono ampiamente discusse nella parte motiva e con estrema attenzione. Si riporta la tesi del consulente di ufficio, nonché della madre, secondo i quali sarebbe stata augurabile un passo indietro spontaneo del padre che avesse non solo accettato, ma addirittura proposto per se stesso un ruolo secondario, anziché paritetico. Brillantemente, il giudicante respinge questa tesi valutando che avrebbe potuto anche verificarsi il contrario, ovvero che lo squilibrio avrebbe potuto essere fonte di risentimenti nel padre (che considera "assolutamente legittimi") e quindi di tensioni nella coppia, con negative ripercussioni sulle figlie, le quali avrebbero oltretutto potuto percepire il padre come genitore secondario.
E' curioso, comunque, l'apprezzamento del CTU per una disponibilità del padre a farsi da parte soprattutto perché in realtà le proposte dei due genitori non erano equivalenti neppure in linea di principio. Difatti, si può capire la soddisfazione da parte della madre - come da parte delle figlie - per un passo indietro in materia del tutto opinabile, nonché tra proposte qualitativamente equivalenti: tenere i capelli più lunghi o più corti, praticare uno sport oppure un altro. Ma ciò non appare altrettanto consigliabile quando invece si tratta di scelte che incidono, e sensibilmente, sul benessere dei figli e sul loro futuro sviluppo. Ad esempio, se per un figlio si confrontano la prosecuzione degli studi, completando la propria formazione con il tentare la via del cinema, rinunciare ad esprimersi non sarebbe affatto apprezzabile. Nella fattispecie, abbiamo da una parte un genitore che propone un modello sbilanciato, asimmetrico e incoerente con l'istituto stesso all'interno del quale lo si vorrebbe inquadrare - l'affidamento condiviso - mentre l'altro non chiede (come spesso avviene) la collocazione prevalente presso di sé, ma una frequentazione e gestione equilibrata delle figlie. In tal caso l'eventuale ritirata del padre non suonerebbe come segno di ragionevolezza e disponibilità al dialogo, ma più verosimilmente come segno di sostanziale disinteresse nei confronti delle figlie con altamente probabile rammarico e sofferenza delle figlie stesse. Giustamente, dunque, il giudicante censura come inaccettabili tutte quelle situazioni in cui senza necessità viene stabilita la prevalenza di un genitore e le considera come una "ingiustificata squalifica del ruolo paterno" (o materno, ovviamente).
Il senso generale dei singoli comportamenti
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La quantità e rilevanza delle singole anomalie sopra descritte induce a chiedersi se esiste un senso generale, una spiegazione unica e coerente, per tante simultanee singolarità.
E in effetti sembra a chi scrive che un denominatore comune possa individuarsi: pare che tutti i soggetti implicati siano combattuti e tormentati dalla evidente antinomia, dalla evidente incompatibilità tra la prassi dominante e quello che ragione e cuore suggeriscono come il modello più idoneo per realizzare l'interesse delle figlie e rispettarne i diritti. Una lacerazione che sembra convincentemente spiegare le loro ondivaghe prese di posizione.
Cominciando dal CTU, il consulente dichiara di voler mantenere una prevalenza materna. Tuttavia, il modello che propone è sostanzialmente paritetico (solo due pernottamenti in più nell'arco di 14 giorni): il che fa pensare che, anche se si uniforma agli orientamenti prevalenti, non ne è realmente convinto.
Allo stesso modo, chi scrive non ritiene che il modello squilibrato, a genitore prevalente, proposto dalla madre, sia effetto di una ferma convinzione che si tratta della miglior formula per le figlie anche se questa è la ragione che viene ufficialmente esibita. Ne sono dimostrazione aver accettato di sperimentare a lungo il modello del nido, a settimane alternate, e l'aver aderito senza riserve alla proposta molto più equilibrata del CTU, sopra descritta.
E anche da parte del magistrato vengono "confessati" dubbi e illustrate riflessioni, ampiamente sopra descritte, che mostrano la sua apertura, la sua tentazione di sposare integralmente tesi e posizioni che ben conosce (anche dalla letteratura) e che gli vengono riproposte dal padre, che pare l'unico a non avere dubbi. Né appare significativa, in senso contrario, la posizione del CTP paterno, disposto a concedere prevalenza alla madre, essendo ben nota sia la propensione dei periti ad allinearsi con la giurisprudenza dominante, e anche perché, più ragionevolmente, è sicuramente ben chiaro a un consulente di vastissima esperienza, come nel caso di specie, che la diffusa maternal preference consiglia di sapersi accontentare. Traducendo, motivi di opportunità processuale.
In definitiva è ben comprensibile che a giuristi dal palato fine il convergere su genitori prevalenti e diritto di visita in regime di affidamento condiviso qualche dubbio possa farlo venire.
È questo un aspetto di non superabile distanza di chi scrive dalla prevalente giurisprudenza. Chi scrive ritiene che certamente non esiste alcuna obbligatorietà di una tempistica uguale (nessuna ricerca "certosina" in tal senso), ma che l'ipotesi di una partecipazione anche nei tempi paritaria dei due genitori alla cura dei figli sia un necessario punto di partenza. Dopo di che, constatatane l'impossibilità (o la inopportunità per una quantità di motivi oggettivi) si potrà procedere (dovrebbe aggiungersi "a malincuore") a una distribuzione asimmetrica, comunque avvicinandosi per quanto possibile alla pariteticità. Duole constatare che di regola si procede esattamente all'inverso, ovvero che l'ipotesi di partenza è che debba per forza esserci un genitore prevalente. Il che, all'interno di un'esperienza consolidata, sia italiana che estera (vedi la Francia) ha come ricaduta pressoché costante una tendenziale arroganza del genitore prevalente e un tendenziale disimpegno del genitore messo in secondo piano dal provvedimento del giudice: anche quando la differenza è irrisoria. Non a caso ci si batte anche per un giorno in più al mese soltanto perché grazie a quel giorno si diventa i "collocatari".
Conclusioni
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Concludendo, non può che apprezzarsi un provvedimento così attento, illuminato e oculato. E, in aggiunta, è da condividere e imitare l'apertura verso la nomina di un coordinatore genitoriale, figura di sicura efficacia nella fattispecie descritta: ma non solo. Può, infatti, senz'altro raccomandarsi l'utilizzazione costante del Piano genitoriale non solo per le coppie ad altissima conflittualità, ma tutte le volte che una coppia non è stata in grado di trovare l'accordo e si avvia verso una separazione giudiziale. A condizione, naturalmente, che sia esente dalle derive ideologiche descritte nel paragrafo precedente. Ma fortunatamente se ne trovano, come quello redatto dalla Camera Minorile di Firenze in collaborazione con il Dipartimento di psicologia dell'Università di Padova.
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