La Consulta, come noto, con la sentenza n. 194/2018 ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 3, comma 1, D.lgs. 23/2015: riflessioni e possibili sviluppi futuri
di Simone Di Tano - Il decreto in questione, indiscusso protagonista della sentenza della Corte, è uno degli otto decreti emanati in attuazione della legge n. 183/2014, recante deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro.

Il D.lgs. n. 23/2015

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Conseguentemente, il d.lgs. 23/2015, ha l'obiettivo di attuare gli scopi indicati dall'art. 1, comma 7, lett. c) della L. 183/2014, il quale, allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, si prefigge vari fini, tra cui la "previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti".
Tale particolare tipologia di tutela si pone come completamento dell'azione di c.d. flexicurity (dalla fusione dei termini "flexibility" e "security") già iniziata con la L. n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), teoria secondo cui ad un maggiore flessibilità del mondo del lavoro può conseguire un effetto espansivo dei livelli occupazionali.
In ossequio a tali scopi, il d.lgs. 23/2015 prevede l'obbligo di reintegrazione esclusivamente per il licenziamento

discriminatorio o nullo, escludendolo, al contrario, dall'ambito di applicazione dei licenziamenti c.d. economici, nei cui confronti prescrive una tutela indennitaria predeterminata e crescente in ragione esclusivamente dell'anzianità di servizio, "di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura non superiore a quattro e non superiore a ventiquattro" (art. 3, co. 1. D.lgs. 23/2015).
Una siffatta previsione, non può che comportare notevoli problematiche applicative (alcune delle quali anche accolte dalla decisione della Corte costituzionale n. 194/2018), tra cui l'attenuazione della discrezionalità dei magistrati, tenuti ad attenersi al rigido calcolo dell'importo indennitario, predeterminato in via legislativa.
Invero, tale aspetto, che prima facie potrebbe anche rivelarsi positivo, in realtà non consente alla magistratura di poter vagliare le singole sfaccettature presentate dal caso concreto, obbligando pertanto i magistrati a valutare in modo analogo situazioni del tutto divergenti tra loro.
Inoltre, la determinazione dell'indennità per mezzo di un semplice calcolo basato sull'anzianità di servizio, permette di predeterminare gli effetti sottesi al licenziamento illegittimo, con l'ovvia conseguenza che il datore di lavoro porrà in essere il licenziamento sulla base di una propria valutazione economica di convenienza.
Infine, va precisato che la misura dell'indennità prevista dal D.lgs. 23/2015 è stata modificata in aumento dal c.d. "Decreto Dignità" (D.l. n. 87/2018), il quale eleva la soglia minima di quattro mensilità prevista dal citato decreto a sei, e quella massima di ventiquattro mensilità a trentasei.
Tale aumento, pervenuto peraltro nelle more del giudizio di legittimità costituzionale, è stato tuttavia ritenuto irrilevante dalla Consulta, la quale, escludendo la necessità di restituire gli atti al giudice rimettente, ha statuito che il cuore delle doglianze non è costituito dal quantum delle soglie minima e massima entro cui può essere stabilita l'indennità, ma dal relativo meccanismo di determinazione.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018

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La Corte ha accolto parzialmente le doglianze prospettate dal giudice a quo, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015, limitatamente alle parole "di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio".
Essa si è pertanto conformata a quel filone giurisprudenziale che considera il pregiudizio subito dal lavoratore, a causa del licenziamento illegittimo, dipendente da una pluralità di fattori (e non dalla sola anzianità di servizio).
Quali sono dunque tali criteri?
Essi sono richiamati dalla stessa Consulta, che si affida pertanto, all'art. 8 L. n. 604 del 1966, per il quale l'indennità viene determinata "avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comporto e alle condizioni delle parti" e all'art. 18, quinto comma l. n. 300/70, il quale segue criteri analoghi a quelli dell'articolo precedente, ma avendo anche riguardo delle "dimensioni dell'attività economica".
Tale pronuncia, pertanto, restituisce il giusto valore al ruolo della magistratura e alla discrezionalità dei magistrati, la quale, come anticipato in precedenza, non deve essere considerata come un'ipotesi pericolosa di libero arbitrio, ma come strumento indispensabile per "personalizzare" il danno subito dal lavoratore.
Da tali considerazioni, inerenti alla violazione dell'art. 3 Cost., la Corte fa discendere anche il vulnus arrecato dall'art. 3, comma 1, D.lgs. 23/2015 agli artt. 4 e 35 della Costituzione.
Invero, un siffatto meccanismo di tutela economica "non costituisce un adeguato ristoro del danno prodotto dal licenziamento né un'adeguata dissuasione del datore di lavoro", riducendo pertanto la determinazione dell'indennità a una sorta di "liquidazione legale forfettizata" in relazione al solo parametro dell'anzianità di servizio.
Dalla descritta irragionevolezza di una indennità determinata in base alla sola anzianità di servizio, la Corte ritiene, infine, che l'art. 3, comma 1, del d.lgs. 23/2015 violi anche gli artt. 76 e 117, primo comma Cost., in relazione all'art. 24 della Carta Sociale Europea (trattato internazionale vincolante per l'Italia), il quale riconosce "il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione".

Possibili sviluppi futuri

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La sentenza n. 194/2018 lascia aperte, tuttavia, numerosi interrogativi.
Ci si chiede, infatti, se tra i vari parametri indicati dalla Corte esista o meno un ordine gerarchico.
Oltre a ciò, un notevole problema è rappresentato dal fatto che l'art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015 viene richiamato espressamente anche da altri articoli del medesimo decreto (es. art. 9), senza tuttavia che la Corte si sia espressa in merito.
Inoltre, altri articoli, (come ad es. l'art. 4), ne richiamano indirettamente il criterio di calcolo.
La questione, pertanto, rimane ancora aperta e in attesa di ulteriori sviluppi.
Recentemente, difatti, sia la Corte d'appello di Napoli (ordinanza del 18 settembre 2019) che il Tribunale di Milano (ordinanza del 5 agosto 2019) hanno sollevato questione di legittimità costituzionale sempre in ordine al meccanismo di tutele prescritto dal c.d. "Jobs Act".
In ogni caso, a meno di inaspettate sorprese, pare ormai pacifico che l'orientamento seguito dal legislatore e dalla giurisprudenza sia quello di ridimensionare la tutela reintegratoria a favore di quella indennitaria.
La questione, dunque, pare tutt'altro che sopita: occorrerà pertanto al legislatore (nonchè alle ormai imminenti pronunce della Consulta) provare a ricondurre in termini di maggiore chiarezza e unità un quadro normativo divenuto eccessivamente frastagliato.


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