Postare un commento offensivo integra gli estremi della diffamazione con lesione del vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo

Avv. Paolo Accoti - Diffondere un messaggio denigratorio su un social network, nello specifico sulla propria bacheca "Facebook", integra l'ipotesi delittuosa della diffamazione, in considerazione del fatto che tale strumento è potenzialmente idoneo a raggiungere un numero indeterminato di persone.

Tale condotta, se rivolta nei confronti del datore di lavoro ovvero nei confronti di altri dipendenti o superiori gerarchici, può essere valutata in termini di giusta causa del recesso, siccome idonea a troncare il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.

Questi i principi dettati dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nella sentenza n. 10280, pubblicata in data 27 Aprile 2018.

La vicenda giudiziaria

Il Tribunale di Forlì prima, e la Corte d'Appello di Bologna successivamente, respingono il ricorso di una dipendente con la quale era stato impugnato il licenziamento alla stessa comminato per giusta causa.

Ed invero accadeva che la dipendente sulla propria bacheca facebook, si lasciava andare a commenti di dispregio nei confronti della azienda datrice di lavoro, laddove veniva riferito che <<mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e per la proprietà>>, senza, tuttavia, specificazione del destinatario del messaggio offensivo, ritenuto non di meno facilmente identificabile.

Tanto è vero che l'azienda, in conseguenza di ciò, provvedeva a licenziare in tronco la dipendente.

Propone ricorso per cassazione la lavoratrice licenziata, affidando lo stesso a tre motivi, tra i quali, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 Cc.

In particolare, la dipendente si lagna della circostanza per la quale la Corte d'Appello di Bologna non avrebbe considerato il profilo psicologico e il grado di intenzionalità della condotta della lavoratrice, la quale, nell'uso dello strumento facebook sarebbe stata inconsapevole <<di esporre nel mondo reale il proprio sfogo, diretto nelle intenzioni a pochi interlocutori>>.

La Corte di Cassazione preliminarmente reputa che il licenziamento deve essere ricondotto alla nozione legale di giusta causa, per la quale occorre considerare la gravità del comportamento tenuto in concreto dal lavoratore, secondo la regola della non scarsa importanza.

Rileva ancora, come <<al fine di ritenere integrata la giusta causa di licenziamento, non è necessario che l'elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, nelle sue possibili e diverse articolazioni, posto che anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l'ulteriore prosecuzione del rapporto (Cass. 1.7.2016 n. 13512)>>.

Nel caso concreto, evidenzia la Suprema Corte, il Giudice del gravame si è correttamente attenuto ai sopra detti principi, in considerazione del fatto che la condotta della lavoratrice è andata ben oltre il contegno diffamatorio.

Ricorda, a tal proposito, come <<la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento "che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici. (Cass. 26.4.2012 n. 6498).>>.

Nello specifico, <<la condotta contestata e posta a base del licenziamento consisteva in affermazioni pubblicate dall'…… sulla propria bacheca virtuale di facebook in cui si esprimeva disprezzo per l'azienda ("mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e per la proprietà") con irrilevanza della specificazione del nominativo del rappresentante della stessa, essendo facilmente identificabile il destinatario.>>.

Licenziato chi diffama l'azienda su Facebook

Orbene, conclude la Corte di Cassazione, <<la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca 'facebook' integra un'ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione. Ciò comporta che la condotta di postare un commento su facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.>>.

Il ricorso, pertanto, viene respinto e la lavoratrice condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, oltre al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Cass. civ., Sez. L., 27.04.2018, n. 10280
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