Una proposta di legge intende porre tempestivo rimedio alla perdita del riferimento al tenore di vita per l'assegno divorzile suggerendo il diritto del coniuge debole alla completa parificazione delle condizioni economiche

di Marino Maglietta - Uscito nel maggio 2017 il provvedimento di Cassazione che cancella il riferimento al tenore di vita per l'assegno divorzile a favore del coniuge debole, non si sono fatte attendere le contromisure da parte dei fautori della indissolubilità economica del matrimonio, i quali appena 2 mesi dopo (luglio 2017) facevano depositare la pdl 4605 che riformulando l'art. 5 della legge divorzio 898/1970 ne scavalca addirittura i contenuti sotto il profilo sostanziale.

Leggi in merito: Assegno divorzio: in arrivo l'addio al tenore di vita per legge

Si stabilisce, infatti, che il tribunale disponga "l'attribuzione di un assegno a favore di un coniuge, destinato a compensare, per quanto possibile, la disparità che lo scioglimento o la cessazione degli effetti del matrimonio crea nelle condizioni di vita dei coniugi". Tradotta in termini pratici la disposizione significa che il giudice deve (la relazione introduttiva dice infedelmente che può) disporre la corresponsione di un assegno senza che esista a carico del beneficiario l'onere di una prova e che la misura di questo assegno non è parametrizzato sul tenore di vita, ma deve realizzare uguali condizioni di benessere tra i coniugi quando non sono più tali.

Vero che si conservano i tradizionali parametri di valutazione (età, durata del matrimonio, contributo dato alla formazione del patrimonio e all'educazione dei figli ecc.), ma in pratica non sarà molto più semplice in sede di decisione pareggiare i conti semplicemente sulla base del reddito? Il messaggio che il magistrato riceve dalla norma, la ratio legis, non è l'eliminazione della disparità economica? Quindi è più che ragionevole aspettarsi che si compia la più semplice delle operazioni aritmetiche: sommare i redditi e dividere per due.

Ma questo all'atto pratico dove conduce? Mettiamo l'operazione a confronto con l'antico riferimento al tenore di vita. Se il coniuge più abbiente ha redditi per 5000,00 € al mese e quello debole per 1000,00, in costanza di matrimonio è lecito ipotizzare che ne destinassero una parte ai consumi e una al risparmio: diciamo 2000,00 ai consumi di entrambi e il resto al risparmio (si è evitato il caso che ci siano figli e si sono usate cifre consistenti per rendere più semplice e chiara la percezione degli effetti). Dunque il riferimento al tenore di vita condurrebbe al trasferimento di 1000,00 € al mese a beneficio del coniuge meno abbiente.

La proposta, viceversa, mirando alla pari condizione economica, comporta che la somma dei redditi (6000,00 €) debba essere divisa per due e quindi al trasferimento di 2000,00 €. Qualitativamente vuol dire che si va nella direzione opposta a quella decisa dalla Cassazione e quantitativamente ciò significa che non si trasferisce solo una parte del reddito, ma anche una parte del risparmio; ovvero si realizza un arricchimento indebito.

Una siffatta proposta, in sostanza, si presenta come un'operazione a tesi, anziché come rispondente a oggettive esigenze e motivazioni. Non a caso è sostenuta con argomenti che ci si sforza di presentare con l'apparenza della plausibilità per renderli condivisibili, a costo di compiere continui scostamenti dalla realtà dei fatti, con piccoli o grandi travisamenti. Si è appena rammentato che l'obbligo per il giudice è presentato come una facoltà. Ugualmente, non è limpido il modo di riferire i contenuti di Cass. 11504/2017.

La Suprema Corte fa partire l'autosufficienza, o indipendenza economica, da un reddito minimo di 1000,00 € al mese accompagnato dalla "stabile disponibilità di una casa di abitazione": definire questa condizione come "stato di povertà" è abbastanza tendenzioso, così come lo è tacere sul secondo possibile criterio indicato nello stesso provvedimento: "Ulteriore parametro, per adattare "in concreto" il concetto di indipendenza, può anche essere il reddito medio percepito nella zona in cui il richiedente vive ed abita".

Assegno divorzio: il contesto europeo

Allo stesso modo è gestito il riferimento alle normative degli altri paesi. La Francia è citata come esempio di stato in cui "è tenuta presente l'esigenza che al coniuge divorziato debole venga dato un aiuto economico destinato ... a compensare la disparità...". Un giro di parole che fa pensare a un diritto incondizionato, mentre ben altro è il contenuto e il significato dell'art. 276, I comma c.c.: « A titre exceptionnel, le juge peut, par décision spécialement motivée, lorsque l'âge ou l'état de santé du créancier ne lui permet pas de subvenir à ses besoins fixer la prestation compensatoire … ». Ovvero, il provvedimento è eccezionale e non ordinario, il giudice non è tenuto, comunque, ad emetterlo, mentre è tenuto a darne adeguata giustificazione. Quanto alla Spagna, non si rammenta che il Codigo civil è ancorato a una visione così antica dei ruoli familiari da prevedere ancora la "patria potestà". Né si rammenta, per quanto riguarda la Germania, che il sostegno è temporaneo, essendo limitato a un anno (e in Olanda a 3 anni). Per cui, edulcorato così il quadro, si conclude che si dovrebbe approvare la proposta per adeguarci all'Europa.

Viceversa, se davvero si vuole dare un'idea di come l'Italia si ponga su questo problema nel contesto europeo sembra corretto rifarsi ai Principi elaborati dalla Commission on European Family Law (in Europa e diritto privato, 2009, 248 ss.), con i quali si suggeriscono linee-guida per armonizzare i vari ordinamenti nazionali per quanto attiene al diritto di famiglia. E sul tema in oggetto la regola è che "dopo il divorzio ciascun coniuge provvede ai propri bisogni" (p. 2.2). Una posizione ben sostenuta dalla dottrina, che in merito agli orientamenti europei, dopo avere notato "quanto ancora sia lungo il percorso che il legislatore italiano deve compiere, se intende adeguare la disciplina nazionale ai Principles in tema di diritto di famiglia, improntati decisamente a favore di un modello progressista di divorzio", così conclude: "per quanto riguarda gli obblighi di mantenimento… è necessario che tale istituto venga riletto sulla base dei concetti di temporaneità ed eccezionalità.

I giudici sono chiamati a dare un'applicazione della legge limitando temporalmente la concessione del diritto al mantenimento ed adeguando in particolar modo la stima dell'assegno alla mera esigenza dell'ex coniuge di condurre una vita dignitosa, non parametrata quindi allo standard di vita sostenuto.

Si deve, infatti, abbandonare il protrarsi all'infinito, ben oltre le effettive necessità del beneficiario, della logica solidaristica nei rapporti tra ex coniugi, per dare spazio, invece, ad una ritrovata libertà in capo ai singoli individui di destinare le proprie sostanze alle esigenze, ad esempio, del loro attuale menage familiare" (Rancan, in La famiglia e il diritto fra diversità nazionali ed iniziative dell'Unione Europea, a cura di Amram-D'Angelo, 2011, 133).

Certamente l'imminente termine della legislatura potrebbe lasciare tranquilli sulla trasformazione in legge di questa proposta, non fosse che proprio per questo potrebbe andare a far parte di un programma politico. Tuttavia, aldilà della sua imprevedibile sorte, una cosa sembra chiara a chi scrive: non si tratta di una scelta progressista.


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