Per la Cassazione non vi è prova della condotta mobbizante poichè il superiore è severo e aggressivo con tutti i dipendenti

di Lucia Izzo - Niente risarcimento per il dipendente che lamenta di essere "vittima" di mobbing a causa del superiore burbero: meglio tenere fuori le acredini personali dal luogo di lavoro poichè, nonostante dissapori extra lavorativi tra il dipendente e il superiore, quest'ultimo risulta essere ligio al dovere sul posto di lavoro, nonché severo e aggressivo con tutti i dipendenti. 

Lo ha precisato la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 2012/2017 (qui sotto allegate), che ha rigettato il ricorso avanzato da un dipendente nei confronti della decisione della Corte d'Appello che aveva ritenuto, stante l'esame del materiale probatorio raccolto in primo grado, che non fosse emersa idonea prova della fattispecie dedotta in giudizio (mobbing). 

La vicenda

Il ricorrente (ausiliario socio sanitario e successivamente O.T.A. in servizio presso il blocco operatorio centralizzato dell'Ospedale) allegava di aver subito, fino al suo trasferimento in altro reparto, un lungo, costante e duraturo processo di azioni vessatorie intenzionali da parte del caposala, il quale ogni qualvolta impartiva ordini di lavoro, seppure legittimi, utilizzava un linguaggio scurrile e ingiurioso e un tono aggressivo, cercava ogni pretesto per rimproverarlo davanti a tutti e intimava ai colleghi di non rivolgergli la parola, allo scopo di isolarlo ed emarginarlo. 

La decisione

Tuttavia, rilevano i giudici di Cassazione condividendo l'apparato argomentativo della Corte territoriale,  era risultato in modo pressoché unanime il giudizio positivo sulle capacità professionali e, soprattutto, organizzative del caposala, sia da parte dei medici, che del collega caposala anch'esso, che dei sottoposti, che avevano riconosciuto allo stesso alto senso di responsabilità e disponibilità a svolgere, in caso di emergenza, anche attività che non erano di sua competenza.

Dai testimoni l'uomo era stato descritto come un caposala sempre attento alle necessità del reparto, capace di distribuire efficacemente il lavoro tra gli addetti, esigente con tutto il personale sottoposto il suo coordinamento, nei confronti del quale utilizzava tuttavia modi autoritari e a tratti anche sgarbati, alzando spesso la voce quando qualcosa non andava bene e in particolare quando i medici segnalavano problemi riguardanti la pulizia dei ferri chirurgici o della sala operatoria.

Nonostante vi fossero stati dissapori tra il ricorrente e il caposala, causati da motivi extra lavorativi collegati all'acquisto di una barca in società con un terzo collega (dal che i rapporti personali, prima buoni, si fecero tesi), a parere del giudice territoriale, ciò non era di per sé sufficiente ad integrare la fattispecie dedotta sotto l'aspetto soggettivo. 

Infatti, le testimonianze avevano confermato che il caposala rimproverava il ricorrente davanti a tutti e usava un tono aggressivo, ma avevano dovuto, allo stesso tempo, ammettere che lo faceva anche con gli altri.

Quindi, l'essere autoritario e severo, magari anche usando espressioni inurbane, non poteva apparire pertanto indice di intento persecutorio rivolto al ricorrente, quanto piuttosto di un modo personale, seppure senz'altro discutibile, di esercitare le prerogative del superiore gerarchico, ma ciò con la finalità di scongiurare disservizi e garantire l'efficienza del reparto.

Infine, quanto all'asserita volontà di isolare o emarginare il ricorrente, le risultanze testimoniali evidenziavano anche che il caposala invitava gli altri ausiliari a non parlare troppo con il ricorrente, altrimenti lo stesso non avrebbe lavorato (essendo stato lo stesso ritrovato spesso distratto, dormiente o fuori reparto). Neppure il presunto danno alla salute può, secondo i giudici, ricollegarsi alle discussioni e ai problemi con il superiore.

Il ricorso va dunque rigettato, essendo condivisibili le argomentazioni della Corte d'Appello e non essendo ammissibile, in sede di legittimità, un complessivo riesame del merito della causa che è quanto l'uomo vorrebbe ottenere stante gli espressi motivi di ricorso.

Per approfondimenti vai alla guida completa sul mobbing

Cass., sezione lavoro, sent. n. 2012/2017

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