I "paletti" delle recenti sentenze della Cassazione sul diritto al mantenimento dell'ex coniuge

di Marina Crisafi - Non ha diritto all'assegno di mantenimento l'ex coniuge che ha capacità lavorativa. È questo ormai l'orientamento che ha preso piede nella recente giurisprudenza di legittimità che sta mettendo i "paletti" sui diritti avanzati dal coniuge più debole, in genere l'ex moglie, facendo tirare un sospiro di sollievo a molti mariti. Del resto, a provarlo sono anche le statistiche che vedono, come sottolineato ai microfoni di Cuore e Denari dal presidente dei matrimonialisti italiani, Gian Ettore Gassani, il riconoscimento del diritto all'assegno di mantenimento nei confronti del coniuge più debole scendere vorticosamente al 17% dei casi, con trend in costante diminuzione, dovuto sia "ad un cambio di mentalità - che - ad un atteggiamento diverso da parte della magistratura".

Così, secondo il recente orientamento della Cassazione (cfr., ex multis, sentenza n. 11870/2015), se è vero che l'art. 5 della legge n. 898/1970, dispone che "l'accertamento del diritto all'assegno divorzile dev'essere effettuato verificando l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio

e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto", tuttavia, è anche vero che la liquidazione in concreto dell'assegno va compiuta "tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio".

E nell'ambito di questo apprezzamento, a detta dei giudici, occorre guardare non solo ai redditi e alle sostanze di chi richiede l'assegno, ma anche a quelli dell'obbligato, i quali "assumono rilievo determinante sia ai fini dell'accertamento del livello economico-sociale del nucleo familiare, sia ai fini del necessario riscontro in ordine all'effettivo deterioramento della situazione economica del richiedente in conseguenza dello scioglimento del vincolo".

Per cui, al fine di determinare lo standard di vita mantenuto dalla famiglia in costanza di matrimonio, occorre conoscerne "con ragionevole approssimazione le condizioni economiche dipendenti dal complesso delle risorse reddituali e patrimoniali di cui ciascuno dei coniugi poteva disporre e di quelle da entrambi effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, mentre per poter valutare la misura in cui il venir meno dell'unità familiare ha inciso sulla posizione del richiedente è necessario porre a confronto le rispettive potenzialità economiche intese non solo come disponibilità attuali di beni ed introiti, ma anche come attitudini a procurarsene in grado ulteriore".

Nel caso portato all'attenzione della Suprema Corte nella sentenza citata, la moglie, che aveva sempre fatto la casalinga e viveva con il solo reddito di lavoro del marito, affermava di non essere in grado di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e domandava pertanto l'assegno in suo favore. Ma sulla base dei principi affermati, gli Ermellini hanno ritenuto non provato né il tenore di vita, né l'asserita situazione economica più vantaggiosa dell'ex marito, ritenendo invece dimostrati il deterioramento dei redditi e lo stato di disoccupazione dell'uomo.

Inoltre, a detta del Palazzaccio, la donna era risultata dotata di idonea capacità lavorativa, avendo esercitato attività sia pure saltuarie. Per cui, la Corte ha escluso la sussistenza dei presupposti per l'attribuzione dell'assegno post matrimoniale.

Analogamente, la Suprema Corte si è espressa con la recente sentenza n. 24324/2015, ribadendo la linea dura sul mantenimento al coniuge debole, in una vicenda avente per protagonista un'ex moglie che chiedeva un assegno mensile di 300 euro al marito, lamentando l'impossibilità di mantenere con i propri redditi il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, avendole, il divorzio sottratto la principale fonte di apporto economico.

A detta della donna, era evidente la disparità dei redditi rispetto al marito, posto che lei viveva invece soltanto con i proventi derivanti dall'affitto di un monolocale acquistato con la liquidazione della quota di comproprietà dell'appartamento coniugale, e per di più era disoccupata e non in grado di trovare un'attività lavorativa, data "l'oggettiva penuria di lavoro" riscontrabile nella sua regione (la Campania), dove era tornata a vivere dopo aver perso il precedente lavoro (a Forlì).

Anche in tal caso, la Cassazione ha dato torto alla donna, sostenendo che la verifica sulla sussistenza del diritto all'assegno divorzile, va effettuata "verificando l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, impossibilitato a procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso". Nella vicenda, invece, non solo il divario dei redditi percepiti dall'ex moglie rispetto al marito non era da imputarsi "ad oggettive difficoltà di reperimento di un lavoro" soltanto in ragione dell'attuale luogo di residenza (visto che la stessa non aveva neanche risposto ad una chiamata dell'ufficio di collocamento di altra regione), ma la donna altresì non era del tutto sfornita di capacità reddituale, in quanto percepiva un canone di locazione ed era anche proprietaria di un immobile ricevuto in eredità.

Per cui, anche in tal caso, addio all'assegno.


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