La Corte di Cassazione, con sentenza n. 42352 del 30 ottobre 2012, ha dichiarato inammissibile il ricorso dei titolari di un'azienda condannati, nei primi due gradi di giudizio, per talune ipotesi di estorsione continuata in danno di alcuni dipendenti. L'accusa traeva origine dalla denuncia dei dipendenti che affermavano di essere stati costretti dagli imputati, a vario titolo occupati nella gestione dell'impresa commerciale, ad accettare compensi per l'attività lavorativa svolta inferiori ai limiti di legge.

I ricorrenti deducono che erroneamente la Corte di merito "non ha ravvisato la violazione della correlazione tra accusa e sentenza

, non ravvisando una sostanziale immutazione del fatto, originariamente contestato in termini di illecita decurtazione delle spettanze, secondo i contratti collettivi, sotto minaccia di illegittimo licenziamento e quanto ritenuto nella sentenza di condanna, in termini di prospettazione della necessità di dimettersi ove il trattamento economico corrisposto non fosse stato ritenuto adeguato". In particolare l'errore della Corte territoriale - sempre secondo i titolari dell'azienda - si era sostanziato nel ritenere equiparabili le due situazioni, sul fallace presupposto che entrambe le situazioni riguardavano la cessazione del rapporto di lavoro e, posto che le dimissioni postulano una libera valutazione del dipendente sull'opportunità di accettare un diverso trattamento retributivo, non poteva affermarsi la natura di minaccia a tale alternativa lasciata alla libera scelta del lavoratore.

Di diverso avviso la Suprema Corte che ha affermato che "agli imputati è stato contestato di avere prospettato ai dipendenti che non accettavano le deteriori condizioni economiche la possibilità di un illegittimo licenziamento, la circostanza emersa a seguito del dibattimento di primo grado secondo cui l'evento futuro era invece costituito dalle dimissioni, non può ritenersi avere mutato radicalmente l'oggetto del giudizio trattandosi di eventi comunque riguardanti l'interruzione del rapporto di lavoro per effetto una condotta illecita del datore di lavoro.

Tale era infatti la corresponsione in somme diverse rispetto a quelle indicate nelle buste paga a fronte delle quali le parti offese, ed anche altri lavoratori, vennero posti dinanzi all'alternativa di accettare ovvero interrompere il rapporto di lavoro".

E comunque - proseguono i giudici di legittimità - "l'evento ingiusto va rappresentato nell'interruzione del rapporto di lavoro essendo indifferente la causa del licenziamento o delle dimissioni essendo queste ultime un fatto solo apparentemente volontario ma, in effetti, sempre imposto dalla abusiva condotta altrui...".


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