Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: la Corte d'Appello di Napoli ribadisce oneri probatori e introduce limiti alla prova testimoniale

Con la sentenza n. 2711 del 1° luglio 2024, la Corte d'Appello di Napoli, sezione lavoro, ha accolto il ricorso di una lavoratrice licenziata per giustificato motivo oggettivo, ribaltando la pronuncia di primo grado che aveva ritenuto legittimo il recesso sulla sola base di deposizioni testimoniali interne all'azienda.

La decisione affronta tre profili centrali del diritto del lavoro: il rispetto dei criteri di scelta del lavoratore da licenziare, l'obbligo di repechage, e - questione particolarmente rilevante - il valore probatorio delle testimonianze dei dipendenti del datore di lavoro ai fini dell'accertamento della legittimità del licenziamento.

Il caso e la decisione della Corte

La vicenda nasce dal licenziamento intimato a una dipendente di un'agenzia assicurativa, con la motivazione di una riduzione del volume d'affari. Il Tribunale di Nola aveva rigettato l'impugnazione del licenziamento, ritenendo sufficiente la prova fornita dal datore di lavoro mediante dichiarazioni di colleghi della ricorrente.

La lavoratrice proponeva appello, denunciando l'assenza di documentazione economica e contabile a supporto delle asserite esigenze organizzative, la violazione dei criteri di scelta e la mancata prova dell'impossibilità di ricollocazione in diverse posizioni aperte presso la società ex datrice di lavoro.

La Corte d'Appello accoglieva integralmente il ricorso, dichiarando l'illegittimità del licenziamento e condannando la società alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, nonché al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a dodici mensilità e dei contributi previdenziali maturati.

Il Collegio, nel suo provvedimento, ha ricordato che, anche dopo la riforma dell'art. 18 Statuto dei lavoratori, «fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo è rappresentato sia dalle ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia dall'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore». Ne discende che l'onere di prova grava interamente sul datore di lavoro e, nel caso di specie «non può dirsi raggiunta la prova né con riferimento all'effettiva sussistenza di ragioni inerenti all'attività produttiva… né con riferimento al rispetto del cd. repechage e, prima ancora, al rispetto dei principi di correttezza e buona fede nella individuazione della lavoratrice quale dipendente da licenziare».

I criteri di scelta e l'obbligo di repechage

Uno dei profili più significativi della sentenza riguarda il rispetto dei criteri di scelta e l'adempimento dell'obbligo di repechage.

La Corte ha richiamato la consolidata giurisprudenza della Cassazione secondo cui, anche nei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo - e, dunque, non solo nei casi di procedure di licenziamento collettivo, la scelta del dipendente da licenziare «non è totalmente libera ma comunque limitata… dalle regole di correttezza e buona fede, potendo farsi riferimento, a tal fine, ai criteri di cui alla L. n. 223/1991, art. 5, quali standard particolarmente idonei a consentire al datore di lavoro di esercitare il suo potere selettivo coerentemente con gli interessi del lavoratore e con quello aziendale».

Nel caso esaminato, la società non aveva fornito alcuna prova sul rispetto di tali criteri, nonostante la lavoratrice avesse evidenziato la presenza di colleghe con minore anzianità di servizio e mansioni fungibili. La Corte ha inoltre - conformemente all'orientamento consolidato della giurisprudenza di merito e legittimità - ribadito che il datore di lavoro deve dimostrare di avere valutato ogni possibilità di ricollocazione del dipendente, anche in mansioni inferiori: «il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a ricercare possibili situazioni alternative… potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore».

La totale assenza di allegazioni e prove sull'adozione di criteri di scelta conformi a buona fede del dipendente da licenziare, oltre che sul corretto assolvimento dell'obbligo di repechage, ha costituito un elemento decisivo per la declaratoria di illegittimità del recesso.

Il limite della prova testimoniale interna all'azienda

Il punto chiave della decisione, ad avviso di chi scrive, è di carattere strettamente processuale e riguarda il valore probatorio delle dichiarazioni rese dai dipendenti dell'impresa. Nella sentenza, infatti, viene chiarito che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non è sufficiente ricorrere a testimonianze "interne" per dimostrare la crisi aziendale o il nesso causale tra riorganizzazione e soppressione del posto di lavoro.

Secondo la Corte, «le uniche prove circa la presunta crisi produttiva sono state date con deposizioni testimoniali… affermazioni alquanto generiche non essendo possibile verificare la reale diminuzione di fatturato della società e, in particolare, se la flessione fosse rilevante e in che termini». La mancanza di documenti aggiornati (bilanci recenti, dati contabili, evidenze economiche) ha impedito di accertare la reale situazione aziendale: «non soccorrono… i documenti depositati… trattandosi di dichiarazioni reddituali di un socio o di bilanci risalenti a molto prima del licenziamento».

In altre parole, la prova del nesso causale tra la riorganizzazione e la soppressione del posto di lavoro non può essere fornita mediante testimonianze di lavoratori interni all'azienda, in quanto dotate di un'attendibilità limitata: occorrono invece riscontri documentali e oggettivi, idonei a dimostrare la necessità organizzativa o economica sottesa al recesso.

La portata innovativa di questo principio sta nel riequilibrio del potere tra datore e lavoratore in sede processuale. Laddove infatti, in passato, la prova testimoniale interna poteva risultare sufficiente a sostenere la tesi datoriale, con il proprio condivisibile orientamento la Corte afferma la necessità di elementi documentali verificabili, riducendo il rischio di decisioni fondate su dichiarazioni non davvero imparziali, in quanto provenienti da soggetti sottoposti al potere del datore di lavoro.

In questo modo, si rafforza il controllo giudiziale sulla reale sussistenza del giustificato motivo oggettivo e si garantisce una tutela più effettiva del lavoratore, che non dispone - a differenza del datore - dell'accesso ai dati contabili e organizzativi dell'impresa.

Conclusioni

La sentenza della Corte d'Appello di Napoli rappresenta un importante tassello nella tutela del lavoratore: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non può basarsi su valutazioni generiche né su prove testimoniali interne. È necessario fornire elementi oggettivi, rispettare criteri trasparenti nella scelta del personale da licenziare e dimostrare l'impossibilità di ricollocazione. In mancanza di tali presupposti, il recesso è illegittimo e il giudice deve applicare la tutela reale, come nel caso deciso, con reintegra del lavoratore e corresponsione di un'indennità risarcitoria.

Scarica pdf sentenza Corte d'Appello di Napoli

Avv. Francesco Chinni

Avv. Sergio Di Dato

Studio Legale Chinni

Vicolo Santa Lucia 2/2

40124 - Bologna

Tel. & fax.051.0312455

www.avvocatochinni.it


Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: