Il tribunale di Bologna ha riconosciuto l'illegittimità del licenziamento per GMO in difetto della prova dell'effettiva riorganizzazione aziendale

Licenziamento per GMO: la vicenda

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Con la sentenza n. 431/2024 (sotto allegata), Il Tribunale di Bologna riconosce l'illegittimità del licenziamento per G.M.O. in ipotesi di difetto puntuale della prova circa l'effettiva riorganizzazione aziendale, comportante la soppressione della posizione lavorativa ed emergono ulteriori motivazioni verosimilmente alla base del risarcimento.

La lavoratrice - inquadrata nel livello 2° del Ccnl Metalmeccanica con mansioni di impiegato disegnatore Cad presso un'impresa del settore metalmeccanico - dopo un lungo periodo di inattività forzata dovuta alla collocazione in cassa integrazione, si è vista recapitare un provvedimento di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fondato su un'asserita quanto generica "soppressione della posizione lavorativa conseguente ad una riorganizzazione aziendale".

Tuttavia, era emerso che, prima del provvedimento espulsivo, la dipendente non solo era stata privata delle sue mansioni, ma ne erano state messe in dubbio le sue capacità e competenze, nonché da ultimo, le erano stati genericamente proposti diversi trasferimenti in sedi lontane o comunque difficilmente raggiungibili e, infine, anche il collocamento in cassa integrazione presentava diversi profili di illegittimità. Ma, soprattutto, la società ex datrice di lavoro non aveva concretamente svolto alcuna concreta ed effettiva riorganizzazione aziendale, anzi, a distanza di sole due settimane dal licenziamento della lavoratrice, si era fusa per incorporazione con una diversa società, che conta centinaia di dipendenti. Per tale ragione la lavoratrice, rivoltasi allo studio degli scriventi, ha impugnato giudizialmente il licenziamento, affinché ne fosse accertata l'illegittimità e la società condannata al risarcimento del danno da ciò derivante come puntualmente documentato in via istruttoria.

Il procedimento

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Instauratosi il procedimento dinanzi alla Sezione lavoro del Tribunale di Bologna, si è costituita la società ex datrice di lavoro, riferendo la correttezza del recesso come comprovato dalla paventata riorganizzazione aziendale. Segnatamente, secondo la tesi datoriale, la procedura sarebbe stata legittimamente rispettata, senza che vi fossero altri ruoli da assegnare alla lavoratrice, alla luce delle mansioni della stessa e della sua professionalità, rinvenendosi concretamente l'esigenza di procedere al recesso in conseguenza del venir meno di talune commesse cui la medesima era adibita; inoltre, nel proprio atto introduttivo l'azienda ha genericamente ascritto alla lavoratrice alcune responsabilità, mai regolarmente contestate (in particolare, una asserita negligenza nello svolgimento di mansioni diverse, nonché un perdurante rifiuto di lavorare per nuove commesse).

Durante l'espletamento dell'istruttoria, sono stati sentiti i due testi citati dalla resistente, fra cui il legale rappresentante della società ex datrice di lavoro: questi ultimi hanno genericamente riferito circa una riduzione delle commesse, avvenuta nel 2019, soffermandosi su una presunta condotta non collaborativa (risultata priva di qualsivoglia effettivo valido riscontro probatorio) della lavoratrice, ammettendo peraltro che il profilo della dipendente "non rispondeva agli interessi dell'azienda incorporante".

Illegittimo il licenziamento per GMO senza prova della riorganizzazione aziendale

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Il Giudice, nell'accertare l'illegittimità del licenziamento, ha in primis dato atto dalla consolidata giurisprudenza di legittimità in tema di GMO - fra cui ex plurimis Cass. civ., sez. lav., 3 maggio 2017 n. 10699 e Cass. civ., sez. lav., 30 novembre 2016 n. 24458, secondo cui in tale specifica ipotesi di recesso datoriale, l'autorità giudiziaria non può intervenire (una volta che le stesse siano allegate e compiutamente provate) sulle scelte operate dal datore di lavoro, all'interno della sua discrezionalità nel condurre l'impresa: "il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva è scelta riservata all'imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell'azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della sua congruità ed opportunità".

Tuttavia, il giudicante ha dato atto che nella fattispecie, se da un lato è emersa l'assenza di prova di qualsivoglia riorganizzazione aziendale (risalendo la riduzione di commesse a tre anni prima del licenziamento), dall'altro è emerso con evidenza che il provvedimento espulsivo era, in realtà, stato dettato da ragioni di carattere esclusivamente e spiccatamente soggettive riferibili al rapporto fra lavoratrice e datore di lavoro - quali le asserite scarse capacità della lavoratrice e i suoi rifiuti rispetto a determinati appalti - dunque non certo di carattere oggettivo.

Viene infatti affermato nella sentenza che "è ancora più lampante che il recesso intimato alla ricorrente fosse determinato non certo da motivi oggettivi, quanto piuttosto soggettivi. […] Manca del tutto la prova che vi sia stata una riorganizzazione aziendale, considerando che la perdita dell'appalto tre anni prima non può comportare un elemento causale effettivo, visto il lungo lasso di tempo…".

In sintesi, dunque il Tribunale ha rimarcato come nel caso oggetto di giudizio, mancasse totalmente la prova delle ragioni oggettive poste alla base del provvedimento espulsivo - una presunta riorganizzazione aziendale - considerando che la perdita dell'appalto tre anni prima non possa certo comportare un elemento causale effettivo, visto il lungo lasso di tempo intercorso tra tale evento e l'operato recesso.

In siffatte ipotesi, peraltro - sottolinea il Giudice, citando C. App. Roma, sez. lav., 12 marzo 2018 n. 842 - l'insussistenza delle ragioni oggettive poste alla base del recesso datoriale comporta l'assorbimento dell'eccezione di violazione del noto obbligo di repechage, pure formulata dalla ricorrente. Per tali ragioni, accertata l'illegittimità del licenziamento, la società ex datrice di lavoro è stata condannata - alla luce della recente giurisprudenza della Corte Costituzionale - al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a 12 mensilità retributive, oltre ad un risarcimento del danno di importo pari a circa € 6.500,00 per le altre condotte illegittime poste in essere dall'azienda così come risultanti dagli esiti istruttori.


Avv. Francesco Chinni e Avv. Sergio Di Dato

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