Per la Corte deve tenersi conto, nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, del rischio che i postumi della lesione degenerino in ulteriore invalidità o morte ante tempus

Rischio latente e liquidazione danno biologico

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Il c.d. rischio latente, ovvero la possibilità (oggettiva e non ipotetica) che i postumi della lesione alla salute possano in futuro degenerare in un'ulteriore invalidità o addirittura nella morte ante tempus, rappresenta per la vittima un vero e proprio danno della salute di cui, dunque, dovrà tenersi conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente e nella liquidazione del danno biologico.


Lo ha rammentato la Corte di Cassazione, terza sezione civile, nella sentenza n. 26118/2021 (qui sotto allegata) pronunciandosi a seguito del ricorso di una compagnia assicurativa che era stata chiamata in causa dall'Ospedale, a sua volta convenuto in giudizio in relazione a una vicenda di malasanità.


In particolare, i sanitari sono accusati di aver reso totalmente e permanentemente invalido un bambino a causa di una grave asfissia ipossico ischemica da lui subita nelle ore immediatamente precedenti il parto. I medici non solo non si avvidero dell'esistenza dei sintomi predittivi di una sofferenza fetale, ma neppure eseguirono tempestivamente un parto cesareo.


La vicenda, a seguito del giudizio di primo e secondo grado, si conclude sostanzialmente con la condanna al risarcimento dei danni in favore dei ricorrenti, tra cui i parenti e avi del minore stesso (quest'ultimo rappresentato in giudizio dai genitori) al risarcimento danni, con condanna dell'assicurazione di tenere indenne l'Ospedale "di tutto quanto fosse tenuto a pagare agli attori".

Danno biologico permanente e durata della vita

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In Cassazione, l'assicurazione lamenta che il danno non patrimoniale sia stato sovrastimato dai giudici di merito che lo avrebbero liquidato tenendo conto della speranza i vita di una persona sana e non, invece, della ridotto speranza di vita che il danneggiato aveva concretamente a seguito del trauma cerebrale patito al momento della nascita.


Secondo parte ricorrente il risarcimento del danno biologico deve essere parametrato al età della vittima e, di conseguenza, qualora venga accertato che questa ha una ridotta speranza di vita rispetto alla media, il danno va liquidato non in base alla durata media della, bensì in base alla concreta aspettativa di vita del danneggiato, altrimenti il risarcimento finirebbe con l'avere una funzione punitiva ad esso estranea.


In pratica, si chiede alla Cassazione di chiarire se, nella liquidazione del danno biologico permanente, si debba commisurare il risarcimento, sempre e comunque, alla durata media della vita in astratto, desunta dalle statistiche mortuarie, oppure si debba avere riguardo alla speranza di vita in concreto della vittima, quand'anche ridotta rispetto alla media proprio in conseguenza del fatto illecito.

Le posizioni della giurisprudenza

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In primis, la Corte si sofferma si quello che parrebbe essere un "contrasto" nella giurisprudenza di legittimità in materia. Un primo orientamento sostiene che "nella liquidazione del danno alla salute la scelta del valore monetario del punto d'invalidità deve essere effettuata senza tenere conto della minore speranza di vita futura che il danneggiato potrà avere, in conseguenza del sinistro; diversamente, infatti, il danneggiante verrebbe a beneficiare di una riduzione del risarcimento tanto maggiore quanto più grave è il danno causato" (cfr. Cass. n. 5881/2000).


A una conclusione non coincidente parrebbe, invece, essere pervenuto un successivo orientamento, sostenendo che nella liquidazione suddetta dovrà tenersi conto non già della speranza di vita media, ma della concreta aspettativa di vita della vittima, quand'anche quest'ultima sia stata ridotta proprio dal fatto illecito.


Tale principio è stato affermato per la prima volta dalla sentenza n. 16525/2003), invocata dall'assicurazione ricorrente che, però, ha "amputato" la parte di decisione ad essa sfavorevole, ovvero quella secondo cui "il giudice deve tenere conto della gravità particolare della lesione, che abbia inciso anche sulla capacità recuperatoria o stabilizzatrice della salute, procedendo ad una adeguata e prudente maggiorazione".


In sostanza, spiega la Cassazione, gli orientamenti riassunti ammettono che il provocare lesioni personali così gravi da ridurre la speranza di vita della vittima costituisca un danno risarcibile. Tuttavia, se per il primo dei due tale danno va risarcito liquidando in base a criteri tabellari standard l'invalidità permanente, il secondo orientamento ritiene che tale danno vada risarcito liquidando il danno biologico in base alla speranza di vita concreta e non a quella normale, ma aggiungendo al risultato un quid pluris per tenere conto del "pregiudizio da anticipanda morte".


Ed è per questi motivi che il quadro dei precedenti illustrati non appare in contrasto, se non apparente, poiché ciascuno di essi, alla luce degli sviluppi della giurisprudenza successiva, contiene un frammento di verità e per questo la Cassazione ritiene sia possibile una loro armonizzazione.

Il fenomeno del "rischio latente"

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Il Collegio rammenta come il danno alla salute possa consistere: nella temporanea o permanente compromissione dell'integrità psicofisica, nonché nell'aumentato rischio di contrarre malattie in futuro o di incorrere nella morte "ante tempus".


Si tratta di indicazioni fornite dalla medicina legale secondo la quale, tra i postumi permanenti causati da una lesione alla salute rientra anche il "maggior rischio di una ingravescenza futura" (come nel caso delle fratture che espongono la vittima al rischio di fenomeni artrosiciprecoci oppure delle infezioni da HCV od HIV, che espongono il paziente al maggior rischio, rispettivamente, di cirrosi epatica o di polmoniti e tubercolosi, al termine della fase di latenza clinica).


Si tratta del fenomeno del c.d. rischio latente il quale consiste "nella possibilità, oggettiva e non ipotetica, che l'infermità residuata all'infortunio possa improvvisamente degenerare in un futuro tanto prossimo quanto remoto, e differisce dal mero peggioramento dipendente dalla naturale evoluzione dell'infermità" che, invece, rappresenta la naturale evoluzione fisiologica dei postumi.


Il rischio latente, invece, è possibilità che i postumi provochino a loro volta un nuovo e diverso danno, che può consistere tanto in una ulteriore invalidità, quanto nella morte, "dunque il patire postumi che, per quanto stabilizzati, espongano per la loro gravità la vittima ad un maggior rischio di ingravescenza o morte ante tempus costituisce per la vittima una lesione della salute" (cfr. Cass. n. 29492/2019).

Determinazione grado percentuale invalidità permanente

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Di conseguenza, si legge in sentenza, se il rischio di contrarre malattie in futuro o di morire anzitempo, a causa dell'avverarsi del rischio latente, costituisce un danno alla salute, di esso andrà tenuto conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, secondo le indicazioni della medicina legale. La liquidazione del danno biologico dovrà dunque avvenire tenendo conto della (minore) speranza di vita in concreto, e non di quella media, altrimenti si rischia di liquidare il medesimo danno due volte.


Tuttavia, può accadere che il rischio latente non sia stato tenuto in conto del grado percentuale di invalidità permanente e, in tal caso, del pregiudizio in esame dovrà tener conto il giudice, maggiorando la liquidazione in via equitativa. Nell'ambito di tale liquidazione "non gli sarà certo vietato scegliere il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima e dunque in base alla vita media nazionale, invece che alla speranza di vita del caso concreto".


Ai fini della legittimità di tale decisione, spiega la Cassazione, ciò che unicamente rileva è che il giudice di merito dia conto dei criteri seguiti tanto nel determinare il grado di invalidità permanente, quanto nel monetizzarlo in via equitativa.


Tornando al caso in esame, il motivo di ricorso deve ritenersi inammissibile per "aspecificità", non avendo parte ricorrente chiarito un elemento essenziale, ovvero se i consulenti tecnici, nel determinare il grado di invalidità permanente nella misura del 91%, abbiano o non abbiano incluso in tale percentuale anche il rischio di anticipata morte, circostanza essenziale per valutare se la liquidazione del danno sia corretta o meno.

Scarica pdf Cassazione Civile, sentenza n. 26118/2021

Foto: 123rf.com
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