Per la Cassazione, per il risarcimento di tale forma di mobbing attenuato non è necessario il requisito della continuità delle azioni vessatorie

di Lucia Izzo - Va riconosciuto al dipendente il risarcimento, a titolo di straining, a causa delle azioni ostili o discriminatorie poste in essere dal datore di lavoro anche se sporadiche in quanto lo straining rappresenta una forma di attenuata di mobbing che non richiede il requisito della continuità.


L'ampia tutela è stata ribadita dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, nell'ordinanza n. 3977/2018 (qui sotto allegata) con cui è stato respinto il ricorso del Ministero dell'Istruzione.

La vicenda

La Corte d'Appello, infatti, aveva accolto il ricorso di un'impiegata colpita dalle vessazioni del suo diretto superiore e aveva condannato il Ministero al risarcimento del danno cagionato alla dipendente, quantificato in oltre 15mila euro.


La donna, dichiarata inidonea all'insegnamento, era stata assegnata alla segreteria, ma erano sorte tensioni con la dirigenza scolastica allorquando l'appellata aveva rappresentato che occorreva ulteriore personale per l'espletamento dei servizi amministrativi.


Rimostranze che erano costate alla donna la sottrazione degli strumenti di lavoro, l'attribuzione di mansioni didattiche (sia pure in compresenza con altri docenti, nonostante l'accertata inidoneità) e, infine, la privazione di ogni mansione fino al punto di essere lasciata totalmente inattiva.


Per la Corte d'Appello tale condotta, seppure non propriamente mobbizzante, avrebbe integrato un'ipotesi di straining, ossia di stress forzato deliberatamente inflitto alla vittima dal superiore gerarchico con un obiettivo discriminatorio.


In conclusione, il giudice a quo aveva ritenuto provato il nesso causale fra le condotte denunciate e il danno biologico di natura temporanea occorso alla donna, così confermando la liquidazione effettuata dal Tribunale sulla base delle indicazioni fornite dal consulente tecnico d'ufficio.

Cassazione: risarcita per straining la dipendente a causa delle azioni ostili del superiore

In Cassazione, il Ministero ritiene che il cosiddetto straining non costituisca una categoria giuridica e che, anche in medicina legale, la sua configurabilità sia controversa sicché, una volta escluse la sistematicità e la reiterazione dei comportamenti vessatori, non vi sarebbe stato spazio per l'accoglimento della domanda risarcitoria.


Per gli Ermellini, in realtà, non ha errato il giudice di merito a utilizzare la nozione medico-legale dello straining anziché quella del mobbing, poichè lo straining altro non è che una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie.

Azioni che, precisa la Cassazione, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 c.c. norma della quale da tempo la giurisprudenza di legittimità ha fornito un'interpretazione estensiva, costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 della Costituzione.

La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., precisa il Collegio, sorge, pertanto, ogniqualvolta l'evento dannoso sia eziologicamente riconducibile a un comportamento colposo, ossia o all'inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell'esercizio dei diritti.

Correttamente, dunque, la Corte territoriale ha ritenuto sussistente la responsabilità del Ministero in quanto la dipendente era stato oggetto di azioni ostili, puntualmente allegate e provate nel giudizio di primo grado, consistite nella privazione ingiustificata degli strumenti di lavoro, nell'assegnazione di mansioni non compatibili con il suo stato di salute ed infine nella riduzione in una condizione umiliante di totale inoperosità. Il ricorso va dunque respinto.

Cass., sezione lavoro, ord. 3977/2018

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