Per giustificare il recesso, il comportamento deve essere contrario ai doveri di correttezza e buona fede

di Valeria Zeppilli - Lavorare mentre si è in malattia non è di per sé un motivo legittimo di licenziamento se il dipendente agisce comunque nel rispetto dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.

Il principio è stato recentemente ribadito dalla sezione lavoro della Corte di cassazione nella sentenza numero 27333/2017 del 17 novembre (qui sotto allegata), che si è confrontata con la vicenda di un uomo che era stato licenziato dal proprio datore di lavoro perché, durante il periodo di assenza per malattia, aveva svolto attività lavorativa analoga a quella eseguita in esecuzione del rapporto di lavoro in un proprio locale, attiguo alla propria abitazione.

Violazione dei doveri di correttezza e buona fede

Nel confermare l'illegittimità del licenziamento, già dichiarata dai giudici del merito, la Corte ha affermato che lo svolgimento di attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia costituisce un giustificato motivo di recesso solo in due ipotesi:

se il comportamento posto in essere dal lavoratore sia sufficiente a far presumere l'inesistenza dell'infermità che è stata addotta per giustificare l'assenza dal lavoro,

se tale comportamento, tenendo conto della natura e delle caratteristiche dell'infermità denunciata e delle mansioni svolte dal dipendente, sia tale da pregiudicare o ritardare la guarigione e il conseguente rientro in servizio.

Solo in tali due casi, infatti, può ravvisarsi una violazione dei doveri di correttezza e buona fede tale da legittimare il recesso. Se essi, però, non si sono verificati e, quindi, il lavoratore era effettivamente malato e non ha compromesso il suo pieno rientro in servizio nei tempi minimi necessari, il licenziamento deve considerarsi illegittimo.

Corte di cassazione testo sentenza numero 27333/2017
Valeria Zeppilli

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