La retribuzione della vestizione nel rapporto di lavoro subordinato, quando spetta secondo la giurisprudenza

Tempo divisa o tempo tuta

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Il cd. tempo-divisa o tempo-tuta è il tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli indumenti da lavoro. Secondo quanto precisato dalla giurisprudenza, il tempo necessario alla vestizione del lavoratore va considerato e retribuito quale lavoro effettivo, ossia quale lavoro che richiede un'occupazione assidua e continua ex art. 3 r.d.l. n. 629/1923, quando l'operazione sia diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, oppure si tratti di operazione avente carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell'attività lavorativa (cfr. ex multis Cass. n. 2135/2011).

Eterodeterminazione

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In altre parole, il tempo-divisa va retribuito quando la scelta dei tempi e dei luoghi in cui procedere alla vestizione e alla svestizione della divisa non è rimessa al lavoratore ma imposta per eterodeterminazione, la quale "può derivare dall'esplicita disciplina d'impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione" (Cass. n. 1352/2016). Viceversa, "ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita" (Cass. n. 19273/2006).

Più specifica, la Cassazione lavoro n. 2578/2023, secondo la quale il c.d. tempo tuta, "costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l'attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell'obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo".

Quando il tempo divisa va retribuito: alcuni esempi

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Nel tempo, la giurisprudenza ha individuato degli indici rivelatori della sussistenza di eterodeterminazione in relazione a vestizione e vestizione degli indumenti da lavoro, precisando che "si tratta di operazioni imposte da un obbligo interno al rapporto di lavoro, che espone il lavoratore a responsabilità disciplinare in caso di inosservanza; né rileva in senso contrario la circostanza che il datore di lavoro non abbia adottato prescrizioni sui tempi entro i quali compiere le operazioni in questione, avendo comunque egli potuto farlo" (Cass. n. 1697/2012).

Ulteriori indici sono costituiti dallo svolgimento delle stesse operazioni all'interno dei locali aziendali all'uopo predisposti (spogliatoi) e dalla registrazione dell'orario di entrata in servizio con timbratura del cartellino.

Sulla scorta di tali considerazioni, ad esempio, è stato riconosciuto il diritto alla retribuzione di un addetto alla lavorazione di gelati e surgelati, per il tempo dallo stesso impiegato ad indossare tuta, scarpe antinfortunistiche, copricapo e indumenti intimi forniti dall'azienda, che richiedeva la sua presenza sul luogo di lavoro prima dell'inizio del turno, accertato che le operazioni di vestizione e svestizione si svolgevano nei locali aziendali e, solo dopo aver indossato tali abiti ed essere passato da un tornello con marcatura del badge, lo stesso dipendente poteva accedere al proprio reparto (cfr. Cass. n. 2837/2014). Per contro, la retribuzione aggiuntiva rispetto al salario già percepito in virtù del contratto di lavoro è stata negata ad un'infermiera che registrava la presenza prima di indossare camice e zoccoli e timbrava l'uscita solo dopo essersi cambiata, in quanto le operazioni venivano realizzate nell'orario di lavoro e dovevano ritenersi comprese nella diligenza preparatoria inclusa nell'obbligazione principale del lavoratore (cfr. Cass. n. 11755/2016). Analogamente, è stata negata la retribuzione per il c.d. tempo tuta a un gruppo di ferrovieri obbligatoriamente tenuti alla vestizione e alla dismissione della divisa giornaliera in virtù delle norme collettive e regolamentari (cfr. Cass. n. 2578/2023).


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