Il legale aveva intimato il precetto su una fattura. Ma non si possono ignorare le regole basilari del processo esecutivo

di Lucia Izzo - Un professionista di media diligenza e preparazione è tenuto a conoscere le disposizioni contenute nel codice di procedura civile relative alla fase esecutiva.

Impossibile non sapere che per notificare il precetto c'è bisogno di un titolo esecutivo e che una semplice fattura non pagata non basta per intimare il pagamento.

E' stato così condannato per responsabilità professionale un avvocato che aveva avuto l'idea di portare ad esecuzione una fattura, senza considerare che non si tratta di un titolo esecutivo.

La tirata d'orecchie per il collega è arrivata dalla terza sezione civile della Corte d'Appello di Roma (sentenza n. 3897 qui sotto allegata) del 25 giugno 2015.

La cliente aveva citato in giudizio il suo avvocato, chiedendone la condanna al risarcimento del danno patrimoniale ed extrapatrimoniale per responsabilità conseguente ad inadempimento nell'esercizio del mandato professionale.

Il legale su mandato della sua cliente aveva citato in giudizio un'impresa di costruzioni per chiedere l'esecuzione urgente delle opere necessarie per l'eliminazione di difetti presenti nell'immobile; il Tribunale con ordinanza autorizzava la parte istante, in difetto di esecuzione dell'impresa, a far eseguire le opere da altra società in danno della convenuta, cosa che parte attrice fece e, dopo aver invano richiesto il pagamento della fattura, notificò precetto (sic!) per ottenere il rimborso di quanto anticipato.

Il Tribunale non poté che dichiarare nullo il precetto poiché la fattura non costituiva certo un valido titolo esecutivo e le modalità di esecuzione non erano state preventivamente definite dal G.E. con la procedura prevista dall'art. 612 c.p.c. 

Il legale ignorando la necessità di ricorrere al giudice dell'esecuzione per ottenere la determinazione delle modalità di esecuzione dei lavori, consigliando erroneamente la sua assistita di provvedere senza indugio a far eseguire le opere da un'impresa di sua fiducia, aveva poi tentato di porre in esecuzione una semplice fattura commerciale.

Ma la vicenda non è finita qui. Il primo giudice rigettava la domanda della donna motivando che "la responsabilità professionale dell'avvocato, la cui obbligazione di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, con riferimento al quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell'art. 1176, secondo comma, c.c., da commisurare alla natura dell'attività esercitata".

Inoltre, aggiungeva il Tribunale, che, poiché il professionista non può garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali sue omissioni intanto è ravvisabile, in quanto sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione, il risultato sarebbe stato conseguito.

L'esito della vicenda è totalmente (e per ovvie ragioni) capovolto in appello.

Il giudice del gravame sostiene che l'istruzione probatoria, che il giudice di primo grado sembra avere completamente obliterato, ha dimostrato che fu l'avvocato, dopo avere convocato l'assistita nel suo studio, ad invitare la sua cliente, decorso il termine contenuto nell'ordinanza cautelare, a far eseguire i lavori da una impresa di sua fiducia, chiedendo la trasmissione della fattura con cui avrebbe procurato il rimborso delle spese.

Quanto al nesso causale, prosegue il Collegio, va ricordato che l'affermazione della responsabilità professionale dell'avvocato, secondo la consolidata giurisprudenza di Cassazione, pur non implicando una indagine sul sicuro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto essere diligentemente coltivata dal professionista, comporta comunque l'accertamento della idoneità della condotta a produrli.

Ciò significa, evidentemente, che il giudice, partendo dalla condotta (in questo caso commissiva) del professionista deve accertare, senza approssimazioni o incongruenze logiche, la fondata probabilità (c.d. causalità ipotetica) che l'evento dannoso, senza la colposa azione, non si sarebbe prodotto. L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica deve, poi, resistere alla verifica controfattuale che, ipotizzando al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, deve concludersi affermando che, in questo caso, il danno sarebbe stato evitato o grandemente ridotto.

Quanto, invece, all'onere della prova, i giudici rammentano che al creditore che agisce per l'inadempimento (o l'inesatto adempimento) è sufficiente la mera allegazione della violazione contrattuale qualificata dalla descrizione delle violazioni (dei doveri accessori, come quello di informazione, ovvero della mancata osservanza dell'obbligo di diligenza), poiché, secondo l'ordinario riparto dell'onere della prova indotto dall'art. 1218 c.c., resta sempre a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente.

La condanna alle spese processuali, di cui la ricorrente ha chiesto il ristoro, è dunque conseguenza diretta ed immediata della negligenza imputabile al professionista appellato, considerato che una più accorta condotta processuale, consistente nell'evitare la notifica del precetto senza un valido titolo esecutivo e la inevitabile opposizione, avrebbe certamente evitato alla parte assistita, oltre al mancato rimborso delle spese anticipate per le riparazioni, anche la condanna al pagamento delle spese processuali al debitore moroso

Il legale è condannato a risarcire all'assistita una somma pari a Euro 4.425,41.

Corte d'Appello di Roma, sent. 3897/2015

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