Va condannato per esercizio arbitrario delle proprie ragioni anche chi esercita un diritto per conto dell'effettivo titolare

di Lucia Izzo - Commette il reato previsto dal'art. 392 c.p. (Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose) il gestore del residence che stacca la corrente elettrica all'unità abitativa del condomino moroso.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, con la sentenza n. 47276/2015 (qui sotto allegata) con cui ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal gestore di un residence, colpevole di aver disattivato la derivazione della corrente elettrica verso l'unità abitativa di un condomino che non aveva provveduto al pagamento delle utenze condominiali.

Già la Corte d'appello aveva valutato che l'uomo, nonostante non fosse il rappresentante della società che amministrava il condominio, doveva considerarsene gestore poiché agiva sempre e per conto della suddetta società provvedendo direttamente al pagamento delle spese condominiali e delle utenze elettriche.

A nulla valgono le doglianze dell'uomo che sostiene di aver agito come mero esecutore di direttive adottate dalla società in questione.

Infatti, per costante giurisprudenza, "il soggetto attivo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere anche colui che eserciti un diritto pur non avendone la titolarità, ma agendo per conto dell'effettivo titolare".

Neppure in base a tale circostanza poteva escludersi nel caso di specie il dolo dell'agente in quanto l'art. 392 c.p. richiede, oltre il dolo generico (coscienza e volontà di farsi ragione da sé pur potendo ricorrere al giudice) anche quello specifico, rappresentato dall'intento di esercitare un preteso diritto nel ragionevole convincimento della sua legittimità.

Siccome dalle testimonianze è emerso che il ricorrente si era sempre occupato di riscuotere, per conto della società, le quote condominiali relative all'energia elettrica, per gli Ermellini è evidente che l'imputato, nel momento in cui illecitamente distaccò l'utenza, era ben consapevole di agire per esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa competesse alla società.

Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma alla Cassa delle ammende.

Vedi anche:

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Cass., VI sez. penale, sent. 47276/2015

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