Presupposti del mobbing e fattispecie particolare in una sentenza della Cassazione Lavoro

Cass. Civ. sez. lavoro, 8 giugno 2015 n. 11789

Nota di Emanuela Foligno

Il mobbing viene solitamente definito come una persecuzione sistematica che un superiore o dei colleghi attuano nei confronti di un lavoratore per spingerlo a presentare le dimissioni. Esso si estrinseca attraverso una serie di condotte che tendono ad emarginare la vittima esercitando su di lui forme di violenza psicologica che ledono la sua dignità umana e professionale.

Spesso viene confuso con situazioni conflittuali all'interno del posto di lavoro, che non possono essere però definite mobbing. La Corte di Cassazione perà è intervenuta più volte per chiarire in quali circostanze si può parlare di condotte integranti la fattispecie del mobbing.

Le forme attraverso cui si estrinseca il mobbing possono essere le più svariate: dalla semplice emarginazione, all'assegnazione di compiti dequalificanti, alle continue critiche rivolte verso la vittima, insomma una sistematica persecuzione che può spingersi fino a un vero e proprio sabotaggio del lavoro altrui o, addirittura, alla realizzazione di condotte integranti reato.

L'obiettivo è pacifico, ovverosia eliminare una persona che è scomoda o non più gradita, sfinendola psicologicamente e sminuendone il ruolo sociale in modo da da indurla alle dimissioni.

Il mobbing non presenta modalità di azione univoche perché può essere realizzato mediante una serie di condotte improprie, che si manifestano attraverso comportamenti, parole, atti, gesti, emarginazione, scritti offensivi della personalità e/o della dignità .

Da evidenziarsi che a rispondere di mobbing non è solo il datore, l'azienda o il direttore di una P.A., ma è sempre colui che materialmente pone in essere il comportamento, sia egli anche un semplice superiore gerarchico o un collega. Nelle ultime due ipotesi, se il datore di lavoro è a conoscenza di tali condotte, ne risponde anch'egli.

Il mobbing, come noto, non sussiste semplicemente al verificarsi di una o più condotte illecite del datore di lavoro, ma deve essere individuato, un intento, una volontà, preordinato e reiterato nel tempo, volto a vessare e perseguitare il dipendente.

La Suprema Corte ha elaborato e individuato alcuni parametri cui far riferimento per verificare se ricorre o meno l'illecito comportamento del mobbing lavorativo (la più recente: Cass. Civ. n. 10037 del 15.05.2015).

1) AMBIENTE LAVORATIVO. La vicenda conflittuale deve avvenire sul luogo di lavoro.

2) DURATA. Le vessazioni devono perdurare per almeno sei mesi, Ad eccezione dei casi "quick mobbing" (ovvero attacchi molto frequenti e intensi e inoperosità), dove il termine viene ridotto a tre mesi.

3) FREQUENZA. Le vessazioni devono avvenire con cadenza di alcune volte al mese. Non rilevano, come noto, le condotte sporadiche.

4) TIPO DI AZIONI. Il mobbing deve concretizzarsi in condotte illecite reiterate e si presenta come una forma di terrore psicologico che viene esercitato sul posto di lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte di colleghi o dei datori di lavoro. Tali azioni devono concretizzarsi in :attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare; isolamento sistematico; cambiamenti nelle mansioni lavorative; attacchi alla reputazione; violenze o minacce.

5) DISEGUAGLIANZA TRA LE PARTI. La vittima deve essere di una posizione di inferiorità. L'inferiorità non si riferisce necessariamente alla posizione gerarchica nell'organigramma dell'interno dell'azienda, ma anche a un dislivello di potere.

6) ANDAMENTO SECONDO FASI SUCCESSIVE È necessario che la vicenda abbia raggiunto almeno la fase in cui il conflitto si è incanalato nella direzione di una determinata vittima che percepisce l'inasprimento dei rapporti e prova un crescente disagio.

7) INTENTO PERSECUTORIO. Devono essere riscontrabili concreti intenti vessatori, ad esempio allontanare la vittima dal posto di lavoro, metterlo in cattiva luce, bloccargli la carriera, isolarlo, metterlo in ridicolo, punirlo per qualcosa di cui lo ritiene responsabile, lasciarlo inoperoso, ecc.


Svolta tale doverosa panoramica, La Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, con la pronunzia oggetto di esame ha condannato il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia del Territorio per mobbing e danni da fumo passivo nei confronti del lavoratore ricorrente.

Le domande del lavoratore sono state accolte in primo grado dal Giudice del Tribunale di Grosseto e confermate dalla Corte d'Appello di Firenze.

Gli atti vessatori subiti dal lavoratore risalgono alla fine degli anni '90. Allo stesso viene diagnosticata una infiammazione alle vie respiratorie e l'Azienda Sanitaria competente ha invitato l'Ente Pubblico, datore di lavoro, a tutelare i propri dipendenti dai rischi di fumo passivo ed a porre in essere le opportune cautele per evitare tali esposizioni.

Nel caso concreto l'Ente datoriale non adotta nessuna precauzione per evitare al lavoratore l'esalazione di fumo di sigaretta dei colleghi e del suo stesso capo reparto.

Inoltre, il lavoratore era spesso oggetto di comportamenti denigratori da parte dei suoi colleghi. Non sono mancate manifestazioni pubbliche offensive, come l'affissione nella bacheca aziendale della richiesta del lavoratore di essere sottoposto a visita medica; il cambio delle chiavi della sua stanza senza prima avergli consegnato quelle nuove, ed altre ancora.

I Supremi Giudici hanno confermato le pronunzie dei precedenti gradi di giudizio, confermando la condanna ad un risarcimento del danno di 50.000 euro da parte dei datori di lavoro a favore del lavoratore.

La pronunzia in commento segue il filone di pensiero già delineato in una pronunzia di merito del Tribunale di Milano (infra) ove è stato riconosciuto il risarcimento per mobbing da fumo passivo qualora il datore di lavoro non abbia fatto nulla per tutelare la salute del dipendente e se la mancata attuazione delle cautele contro il fumo passivo sia, finanche, un atto volontario allo scopo di perseguitare il lavoratore.

Tale risarcimento dovrebbe prescindere dalla circostanza che il lavoratore abbia, o meno, problemi alle vie respiratorie, poiché anche il soggetto sano e non fumatore, ovvero un soggetto sofferente di patologie non polmonari, ha diritto a non essere esposto al fumo passivo nel luogo di lavoro.

Nel caso del fumo passivo, in particolare, se ad esso non è ancorato l'intento da parte del datore di lavoro di creare una sorta di terrorismo psicologico nel dipendente, allo scopo di rendergli intollerabile l'ambiente di lavoro, allora tutto ciò che si può fare, e ottenere, è chiedere un risarcimento del danno per mancata attuazione delle norme di sicurezza e di tutela della salute.

Diversamente, se si tratta di un atto deliberatamente posto in essere per vessare il dipendente, allora potranno valutarsi le condizioni per chiedere il risarcimento per mobbing.

Nel caso esaminate, l'Ente pubblico, datore di lavoro, non ha fatto nulla per attuare le norme di tutela della salute dei dipendenti né ha posto il divieto di non fumare.

Diversamente, come sopra accennato, qualora il Giudice del Lavoro non dovesse ravvisare in capo al datore di lavoro l'illegittimo comportamento da mobbing, al lavoratore spetterà unicamente il risarcimento del danno non patrimoniale.

Al riguardo è illuminante la pronunzia di merito del Tribunale di Milano (n. 2536/2014- Giudice Atanasio)

Con tale pronunzia il Tribunale di Milano ha condannato il Comune di Milano a risarcire ad una dipendente, agente della Polizia Municipale, la somma di 10.000,00 euro "a titolo di danno esistenziale per esposizione a fumo passivo".

Il Tribunale non ha ravvisato gli estremi del mobbing nella pluralità dei comportamenti subiti dalla ricorrente (trasferimenti, demansionamenti), poiché tali fatti e situazioni sono stati ritenuti privi di rilievo giuridico dal punto di vista del comportamento dedotto come persecutorio.

Il danno da mobbing è stato, quindi, ritenuto non fondato. E' stato però considerato, con riferimento all'esposizione della lavoratrice al fumo passivo, che "altre situazioni - pure dedotte dalla ricorrente - seppure non possono essere considerate di per sé sole come espressione di comportamenti mobbizzanti, causa delle patologie dedotte dalla ricorrente, pur tuttavia possono pur sempre avere un certo rilievo sotto l'aspetto risarcitorio".

A causa della postazione assegnatale ("sita in uno spazio ricavato dal corridoio che veniva utilizzato per uscire all'esterno; ed era pertanto possibile che qualcuno passasse con la sigaretta accesa mentre si apprestava ad uscire e che si fermasse a fumare proprio in prossimità dell'ingresso"), la dipendente aveva dovuto subire il fumo dei colleghi di ufficio senza che l'Ente Locale assumesse i necessari provvedimenti di divieto, pur essendone stato espressamente richiesto l'intervento.

Il comportamento omissivo del Comune, datore di lavoro, ovverosia il mancato intervento a protezione della salute e del benessere dei dipendenti, è stato riconosciuto come "certamente determinante per il danno non patrimoniale subito dalla ricorrente".

Statuisce il Giudice in sentenza che dalla continua e ripetuta esposizione della lavoratrice al fumo passivo si è creata una situazione di disagio causata da un comportamento vietato da specifiche disposizioni di legge (L. 16 gennaio 2003 n.3, art. 51), e che tali disagi hanno inciso negativamente sull'esercizio di diritti costituzionalmente garantiti come il diritto al lavoro e alla libera espressione della propria personalità nelle formazioni sociali.

Di qui la condanna al risarcimento del danno (ndr: non patrimoniale) per esposizione al fumo passivo.

Sempre del 2014 altra pronunzia (TAR Firenze, n. 2025 del 11.12.2014), ove non è stato riconosciuto ai ricorrenti, Agenti di Polizia Penitenziaria, il danno non patrimoniale per l'inalazione del fumo di sigarette consumate dai detenuti nelle celle.

Il Tribunale ha ritenuto che il risarcimento del danno non sia dovuto poiché l'esposizione degli Agenti al fumo passivo è limitata all'occasionale presenza nei corridoi degli stessi, e, comunque, nel luogo di lavoro sono state adottate tutte le opportune misure per adeguare la dotazione impiantistica anti fumo. 



Milano 22 luglio 2015 - Avv. Emanuela Foligno_ studiolegale.foligno@virgilio.it_Twitter@EmanuelaFoligno


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