La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21362 del 21 maggio 2013, ha affermato il principio di diritto secondo cui "l'errore, ancorché colposo, del datore di lavoro sul possesso di regolare permesso di soggiorno da parte dello straniero impiegato, cadendo su elemento normativo integrante la fattispecie, comporta l'esclusione della responsabilità penale".

Il caso preso in esame dalla Suprema Corte riguarda la titolare di un esercizio commerciale di preparazione e concia di pelli di cuoio condannata, nei primi due gradi di giudizio, per aver occupato alle proprie dipendenze un cittadino indiano sprovvisto di permesso di soggiorno.

In primo luogo i giudici di legittimità ritengono utile ricordare il testo normativo (art. 22, comma 12, d.lgs. 286/1998) il quale, al comma 10 vigente all'epoca dei fatti (ma l'attuale comma 12, novellato dal D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 5, comma 1 ter, aggiunto dalla relativa legge di conversione, nulla ha su tale punto specifico modificato nella descrizione della condotta) dispone: "Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato, è punito…".

La difesa dell'imputata in relazione alla figura di reato pone la questione giuridica della identificazione di un regolare contratto

di lavoro subordinato negandone la ricorrenza nella fattispecie non essendo stata riscontrata una regolare assunzione ma la Corte precisa che "Il contratto di lavoro prende forma giuridica con l'incontro della volontà del datore di lavoro di assumere alle proprie dipendenze il lavoratore erogando il relativo compenso, con quella di quest'ultimo di prestare la propria opera retribuita e la regolarità dell'assunzione ai fini amministrativi, previdenziali ed assicurativi non ne inficia la regolarità sul piano civilistico. (…) nel caso in esame non può dubitarsi sulle circostanze di fatto che gli accertamenti ispettivi abbiano provato i requisiti oggettivi del reato e cioè che il cittadino indiano di cui alla contestazione fu trovato, insieme ad altri operai, intento al lavoro presso l'azienda dell'imputata e ciò dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, il rapporto medesimo."

Sul difetto di motivazione in relazione alla ricorrenza nella fattispecie dell'elemento psicologico del reato, la difesa ricorrente osserva che il reato è attualmente punito a titolo di dolo e come delitto, mentre al momento della contestazione la condotta era invece punita a titolo di colpa e come contravvenzione. Su tale presupposto parte ricorrente chiede di applicare al caso in esame la disciplina più rigorosa comunque più favorevole, in concreto, in ordine alla prova dell'elemento psicologico del reato. In tale ipotesi infatti non risulta provato che l'imputata, al momento dell'accertamento dei fatti, conoscesse la situazione del cittadino indiano e che, in particolare, lo stesso fosse sfornito di permesso di soggiorno

Al riguardo la Corte territoriale ha esplicitamente valorizzato la natura contravvenzionale del reato previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma 5, oggetto di contestazione, punito all'epoca dei fatti anche a titolo di colpa, non elisa dalla buonafede del datore di lavoro.
I giudici del merito - si legge nella sentenza - non hanno pertanto correttamente considerato che "il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 5, comma 1 ter, convertito in L. 24 luglio 2008, n. 125 - volendo reprimere più gravemente il reato e sostituendo la pena dell'arresto da tre mesi ad un anno e dell'ammenda di euro 5.000 per ogni lavoratore impiegato, con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di euro 5.000, sempre per ogni lavoratore impiegato - ha trasformato la contravvenzione in delitto, di guisa che allo stato, ai sensi dell'art. 42 c.p., comma 2, il fatto è ora punito solamente se commesso con dolo, non essendo nulla di diverso espressamente preveduto dalla norma incriminatrice. "

L'intervento normativo del 2008, pertanto, ha reso penalmente irrilevante la responsabilità colposa e, quindi, ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 2, anche le condotte pregresse di impiego di stranieri privi del permesso di soggiorno valevole a fini lavorativi, possono dunque essere tuttora punite solamente se dolose.


Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: