Lo studio di Mediobanca mostra come i giganti del web che fatturano miliardi, danno lavoro ma poi scelgono di pagare le tasse nei "paradisi fiscali" a danno di paesi come l'Italia

di Annamaria Villafrate - Lo studio di Mediobanca del 17 novembre 2019 (sotto allegato) sui Giganti del Web fornisce dati che fanno impressione per fatturato, guadagni, posti di lavoro creati grazie a questi imperi della rete. Peccato che tale ricchezza venga offuscata da scelte "furbe" come pagare le tasse nei più famosi paradisi fiscali al mondo. Un guadagno ulteriore per loro, che però sottrae mezzi ai paesi in cui comunque questi colossi si arricchiscono. Il precedente Governo aveva introdotto la web tax, poi rimasta inattuata. Il nuovo Esecutivo invece nel disegno di bilancio della finanziaria 2020 ha introdotto l'imposta sui servizi digitali, che stando alle parole del Ministro, entrerà in vigore direttamente a partire dal primo gennaio 2020. L'obiettivo però è un altro, creare una tassa uniforme minima a livello europeo, anche se la soluzione ideale sarebbe quella di pensare a un sistema di tassazione uniforme a livello internazionale.

Lo studio di Mediobanca

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Il 27 novembre Mediobanca pubblica uno studio molto interessante, che fa riflettere.

L'analisi riguarda 25 giganti del web che operano nell'internet retailing, nello sviluppo software e nei servizi internet come portali, social, ricerca e sistemi di pagamento services.

Ben 14 di loro hanno sede negli Stati Uniti, 7 invece in Cina, 2 in Giappone e le ultime due in Germania.

Solo nel 2018 questi colossi hanno generato un giro di affari di 850 miliardi, impiegano 2 milioni di lavoratori godono di una solidità patrimoniale e di una liquidità invidiabile, i loro utili in cinque anni sono raddoppiati, per non parlare del loro valore di Borse che supera abbondantemente i 5.000 miliardi. In Italia molte di queste websoft hanno fatturato nel 2018 2,4 miliardi.

I big del web: Amazon in testa

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Il mercato del web, anche se lo studio si occupa di 25 giganti, è in realtà concentrato soprattutto nelle mani degli americani che ai primi tre posti vedono Amazon, Alphabet (Google) e Micrtosoft. In termini di crescita però dal 2014 al 2018 quelli che hanno fatto le migliori prestazioni sono Netscape, Alibaba e Facebook. Amazon ha però un altro importante primato, che è quello dell'occupazione. Bezos infatti tra il 2014 e il 2018 ha quadruplicato il numero dei suoi dipendenti.

Il punto dolente? Il Fisco

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I Giganti del web e del fatturato in questi anni hanno ottenuti grandi numeri anche in termini di risparmio fiscale. Circa la metà dell'utile infatti è tassato in paesi che godono di una fiscalità agevolata, un trucchetto che ha fatto risparmiare ai colossi più di 49 miliardi di tasse negli anni compresi tra il 2014 e il 2018, con una media di risparmio annuale di oltre 12 miliardi.

In Italia le Websoft sono presenti tramite società controllate concentrate soprattutto nella città di Milano e nella zona di Monza- Brianza. Solo nel 2018 il fatturato complessivo delle filiali ha superato i 2,4 miliardi. Peccato che la fisco siano andati solo 64 milioni che sommate alle sanzioni di 39 milioni, hanno fatto incassare al fisco, in ogni caso, una cifra irrisoria rispetto ai guadagni conseguiti.

Nella legge di bilancio l'imposta sui servizi digitali

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Tutti questi dati non fanno che riportare alla ribalta il tema della web tax, tassa introdotta dall'articolo 1, commi 35-50, della L. n. 145/2018 (legge di bilancio 2019) che nello specifico ha istituito "l'imposta sui servizi digitali". In base alla norma l'imposta prevede un'aliquota del 3% sui ricavi da applicare ai soggetti che prestano servizi digitali e che conseguono un ammontare complessivo di ricavi non inferiore a 750 milioni di euro e un ammontare di ricavi derivanti dalla prestazione di servizi digitali non inferiore a 5,5 milioni di euro. La norma, che doveva entrare a regime a partire dal primo gennaio 2019 però è rimasta inattuata perché il ministero delle Finanze non ha emanato il decreto che avrebbe dovuto darvi attuazione. Non solo, la web tax era ed è ancora oggi pensata come tassa transitoria, in attesa di una disciplina generale, frutto di accordi internazionali sulla tassazione dell'economia digitale.

Il ddl 1586 che contiene la bozza della legge di bilancio per il 2020, all'art. 84 contiene la disciplina dell'Imposta sui servizi digitali di cui all'articolo l, comma 35, della legge 30 dicembre 2018 n. 145. A differenza della precedente formulazione però non è richiesto un decreto attuativo per renderla efficace, volendo renderne automatica l'applicazione a partire dal primo gennaio 2020. La tassa andrà a gravare la pubblicità mirata agli utenti online, la fornitura di beni e servizi venduti su piattaforme digitali e la trasmissione di dati degli utenti. Il prelievo colpirà Google, Facebook e Amazon per quanto riguarda il settore pubblicitario e i servizi di Alibaba, Amazon o eBay.

Verso la web tax europea?

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Il Ministro Gualtieri ha chiarito che, grazie all'imposta sui servizi digitali prevista nella nuova manovra di bilancio per il 2020, i profitti verranno tassati dove vengono effettivamente realizzati, anche se occorre fare di più. Non solo, il Ministro riferisce anche che "L'Italia ha appena chiesto alla Commissione europea di presentare una proposta di direttiva sulla tassazione minima effettiva del mercato interno. A livello OCSE è in corso un negoziato per introdurre nuove regole di tassazione sulle multinazionali digitali (…) siamo molto vicini a chiudere un accordo europeo sulla tassa sulle transazioni finanziarie che si configura come una sostanziale conferma del modello già in vigore in Italia (…) non siamo parlando di nuove tasse per l'Italia, ma estensione a livello europeo di misure già in vigore nel nostro ordinamento con l'obiettivo di ridurre la concorrenza sleale e aumentarne l'efficacia."

Leggi anche Web tax da gennaio 2020

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Foto: 123rf.com
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