La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. n. 15752/2009) ha stabilito che non è lecito ‘trattare male' il dipendente che è solito polemizzare su tutto e, il datore di lavoro che lo fa, rischia una condanna penale. Con questa decisione la Corte ha annullato, con rinvio, la condanna per il reato di diffamazione decisa in favore di un capo ufficio ‘reo' di aver risposto con una lettera perentoria alle richieste di chiarimenti avanzate dal dipendente dell'azienda. Nel caso di specie, secondo gli Ermellini, "prescindendo dal rilievo, in verità non determinante, attribuito alla corte di merito al documento cui si riferisce il primo motivo del ricorso, quello deve ritenersi in effetti censurabile, in linea con quanto lamentato nel secondo e nel terzo motivo, è l'avvenuto riconoscimento, a fronte della non negata offensività delle espressioni contenute nella lettera incriminata, della valenza sostanzialmente scriminante che avrebbe assunto il pregresso comportamento del (…), culminato nell'asseritamente pretestuosa richiesta di chiarimenti cui, con lettera anzidetta, era stata data risposta, senza che, peraltro, risulti neppure ben chiarito il ragionamento giuridico in base al quale si era pervenuti alla suddetta conclusione, facendosi riferimento, nella parte conclusiva dell'impugnata sentenza
, prima alla pretesa assenza di una ‘precisa volontà offensiva' e poi ad un ‘pregresso comportamento provocatorio' della persona offesa; riferimenti, questi, con riguardo ai quali va osservato, relativamente alla volontà offensiva, che non risulta alcun modo specificato per quale ragione essa non potesse desumersi, contrariamente all'evidenza, dal letterale tenore delle espressioni adoperate (di cui peraltro si riconosce, nella stessa impugnata sentenza
, il carattere ‘poco opportuno'); relativamente al ‘pregresso comportamento provocatorio', come tale suscettibile di giuridica rilevanza solo ai sensi dell'art. 599, comma secondo, c.p., che, potendosi in ipotesi individuare il ‘fatto ingiusto' solo nel contenuto e nel tono della missiva inviata il (…) e non certo (come invece sembrerebbe da certi passaggi dell'impugnata sentenza) nel carattere generalmente polemico mostrato dal (…) nei rapporti d'ufficio, non risulta minimamente presa in considerazione, da parte del giudice d'appello, l'esigenza posta dalla norma, con l'inciso ‘subito dopo di esso', della contiguità cronologica tra il ‘fatto ingiusto' e lo ‘stato d'ira' ad esso conseguente; il che appare tanto più grave in quanto, stando alla ricostruzione dei fatti offerta dall'impugnata sentenza, tra l'invio della nota del (…) e la riposta di quest'ultima sarebbero passati ben nove giorni".

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