Il riscatto della laurea ai fini pensionistici
C'è una parola che, più di altre, attraversa silenziosamente il dibattito sulle pensioni: fiducia. Fiducia nello Stato, nelle regole, nella prevedibilità del patto tra cittadino e istituzioni. Il tema del riscatto degli anni di studio - apparentemente tecnico - è in realtà una cartina di tornasole di questa fiducia. Perché quando una regola cambia dopo che qualcuno ha già fatto una scelta onerosa, non si modifica solo un calcolo contributivo: si incrina una promessa.
La legge di bilancio interviene sul riscatto degli anni universitari riducendone progressivamente l'efficacia ai fini dell'accesso alla pensione anticipata. In termini semplici, gli anni riscattati contano sempre meno per raggiungere il requisito contributivo. Formalmente lo strumento resta; sostanzialmente, viene svuotato. È un'operazione che non cancella, ma svilisce. Come certe parole che rimangono nei codici, ma perdono anima nella prassi.
Molti lavoratori - soprattutto laureati con carriere iniziate tardi o discontinue - hanno scelto di riscattare gli anni di studio compiendo un vero e proprio investimento previdenziale. Spesso a caro prezzo, talvolta con sacrifici personali rilevanti. L'idea di fondo era chiara: studiare non è tempo perso, ma tempo che lo Stato riconosce come socialmente utile. Oggi, quel tempo viene retrocesso a una sorta di pausa neutra, che pesa meno proprio quando dovrebbe pesare di più.
Il futuro, per chi ha pianificato con cura, sembra ora arretrare di qualche anno. Silenziosamente.
Il profilo giuridico: legittimità formale, fragilità sostanziale
Dal punto di vista strettamente giuridico, la manovra si muove in un'area formalmente legittima: il legislatore può ridefinire i criteri di accesso alla pensione. Ma il diritto non vive di sola legittimità formale. Vive anche di affidamento, principio non sempre esplicitato ma profondamente radicato nella cultura costituzionale europea.
Quando lo Stato incentiva un comportamento - come il riscatto della laurea - e poi ne riduce ex post gli effetti, il rischio è quello di una frattura simbolica: il cittadino scopre che la razionalità della scelta passata non è più garantita nel presente. Non è solo un problema di pensioni; è un problema di credibilità normativa.
La dimensione psicologica: lavorare più a lungo, sentirsi traditi
C'è poi un piano meno visibile, ma decisivo: quello psicologico. La pensione non è solo un reddito differito; è una linea dell'orizzonte esistenziale. Sapere quando si potrà smettere di lavorare struttura le aspettative, regola i ritmi di vita, sostiene la fatica quotidiana.
Ridurre il valore degli anni riscattati significa dire, implicitamente: dovrai lavorare più a lungo di quanto avevi previsto. Questo messaggio produce frustrazione, senso di ingiustizia, disillusione. Non a caso le reazioni più dure arrivano da chi aveva creduto nella razionalità del sistema e aveva agito di conseguenza. Come se la fedeltà alle regole diventasse, paradossalmente, una colpa.
C'è qualcosa di amaro nel constatare che la delusione più bruciante colpisce proprio chi si era fidato di più. Ma una società che penalizza la fiducia si espone a un cinismo diffuso.
Il risvolto sociologico: una penalizzazione generazionale
Sul piano sociale, la misura colpisce soprattutto le generazioni più giovani e istruite, quelle che entrano tardi nel mercato del lavoro, spesso con contratti fragili, e che avevano visto nel riscatto un modo per riequilibrare lo svantaggio iniziale. Il messaggio che passa è ambiguo: studiare resta importante sul piano simbolico, ma diventa sempre meno rilevante sul piano previdenziale.
Si crea così una contraddizione strutturale: da un lato si invoca la conoscenza come motore dello sviluppo, dall'altro si deprezza previdenzialmente il tempo dedicato a formarsi. Una società che chiede competenze alte, ma le riconosce basse quando si tratta di diritti futuri.
Una questione politica, prima ancora che tecnica
Il nodo del riscatto degli anni di studio non è un dettaglio di bilancio. È una scelta di politica sociale che dice molto su come lo Stato guarda ai percorsi di vita dei cittadini. Svalutare il riscatto significa spostare ancora una volta l'equilibrio verso una logica puramente contabile, sacrificando coerenza e fiducia.
Il rischio, alla lunga, è duplice: disincentivare comportamenti virtuosi e alimentare una percezione di precarietà normativa permanente. E quando le regole diventano mobili, anche il patto sociale si indebolisce.
Forse il punto non è chiedersi se la misura sia sostenibile. Ma se sia giusta. Perché la forza di una norma non sta solo nella sua validità tecnica, ma nella sua capacità di essere accettata come equa. E l'accettazione nasce dal sentirsi riconosciuti, non traditi.
• Foto: 123rf.com







