Una riflessione icastica sulla riforma della giustizia e sulle "anomalie" intollerabili in atto


Desta sorpresa e preoccupazione che l'eversione in atto, per quanto di palmare evidenza, non susciti reazione alcuna.

E' invece addirittura inconcepibile in via di principio che il Parlamento anche solo concepisca di realizzare una c.d. "Riforma" della Giustizia (all'atto pratico, l'imposizione di un bavaglio per garantire impunità ai politici).

Si tratta di un enorme crimine giuridico. E non solo: è un insulto alla Costituzione, ai principi fondamentali del diritto costituzionale, alla dottrina giuridica storica e alla storia del pensiero.

Certamente superfluo ricordare che alla Magistratura è affidato il compito di tutelare la legalità. Ovvero garantire il rispetto della legge e, quindi, dei diritti dei cittadini e l'eguaglianza fra di essi.

Sono secoli che la cultura filosofica, giuridica e sociale ha individuato l'elementare antidoto all'abuso del potere politico: la sua scissione in tre poteri distinti, legislativo, esecutivo e giudiziario.

Separazione vuol dire che nessuno di questi singoli poteri può interferire o imporre alcunché ad alcuno degli altri due.

Una classe politica incolta, abbagliata dalla possibilità di usare a proprio personale vantaggio il potere attribuito per perseguire il bene pubblico, si comporta secondo modalità completamente estranee ai principi e regole fondamentali del Diritto. E del resto già ha posto in atto, sempre nel silenzio generale, dei gravissimi danni al quadro giuridico istituzionale (e quindi ai diritti dei cittadini).

Ci riferiamo, tra l'altro, alla stupefacente perversione di cambiare la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, nella becera finalità di acquisirne il controllo. E alla stessa categoria appartiene l'abolizione della figura del Pretore, la cui autonomia, e quindi libertà di giudizio, infastidiva il mondo degli affari, gli inquinatori e gli amministratori disinvolti.

Requisito e condizione di uno Stato democratico, il principio della separazione dei poteri è acquisito e sancito dalla nostra Costituzione.

Sul piano formale, quindi le anomale interferenze normative realizzate, sono incostituzionali e di ciò è necessario interessare la Corte costituzionale.

Sul piano sostanziale, invece, esse evidenziano un costume mentale e una concezione del ruolo totalmente aberrante e come tale da abolire subito.

Sarebbe ipoteticamente concepibile una eventuale ridefinizione delle reciproche attribuzioni solo mediante una conferenza paritaria dei tre poteri successivamente approvata con referendum popolare.

Incidentalmente, a conferma di questa mentalità di onnipotenza mungitoria diffusa nella classe politica, è il fenomeno emblematico degli stipendi e dei vitalizi (addirittura resi trasmissibili ai figli (e, di questo passo, fra poco, anche ai nipoti e agli animali domestici).

La Costituzione, infatti, non prevede che ai parlamentari venga corrisposto uno stipendio a fronte del limitato impegno richiesto, non assimilabile ad una prestazione lavorativa in senso proprio. All'art. 69 il testo precisa che "i membri del Parlamento ricevono una indennità".

Indennizzare, in italiano, significa risarcire un danno, ovvero rifondere spese. In altri termini, la Costituzione si premura di evitare che le eventuali spese sostenute per adempiere l'incarico parlamentare rimangano a carico dell'interessato.

Siamo molto lontani dallo stipendio, tra l'altro esageratamente benefico che i membri del Parlamento si sono abusivamente autoelargiti (e dove il prestatore d'opera può decidere il livello del suo compenso?). E non parliamo poi dei vitalizi...

La decenza istituzionale impone l'eliminazione immediata di queste anomalie intollerabili.

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