Per la Cassazione, il padre è tenuto al contribuire al mantenimento della figlia che ha ottenuto lavori a tempo parziale e a tempo determinato e risiede presso la madre

Contributo al mantenimento per la figlia

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La Corte di Cassazione nell'ordinanza n. 19077/2020 ribadisce che non si può revocare il mantenimento disposto in favore della figlia, se dalle prove raccolte emerge che la ragazza di fatto non ha ancora raggiunto l'indipendenza economica visto che anche se ha iniziato a lavorare ha svolto lavori part-time e ha avuto solo contratti a termine. Gli Ermellini ricordano inoltre che i figli hanno diritto a mantenere un tenore di vita conforme alle risorse della famiglia e, e se possibile, simile a quello goduto precedentemente in famiglia.

Una decisione che chiude una vicenda che vede contrapposti da un alto un padre e dall'altra la ex moglie e la figlia maggiorenne e che in primo grado sfocia nel rigetto della domanda di riconoscimento dell'assegno divorzile sollevata dalla ex moglie e nella riduzione a 180 euro del contributo al mantenimento per la figlia. Decisione a cui parte soccombente non si rassegna e che viene in parte riformata dalla Corte d'Appello, che ridetermina il contributo in favore della figlia in 300 euro mensili.

Per il padre nulla è dovuto alla figlia che lavora

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Il padre però non accetta la decisione e ricorre in Cassazione, contestando quanto statuito dalla sentenza d'appello per i seguenti motivi:

  • prima di tutto il ricorrente denuncia la nullità della sentenza perché la ex moglie in appello ha avanzato una domanda nuova relativamente al mantenimento della figlia, nonostante l'assenza di prove idonee a dimostrare fatti sopravvenuti, nuove esigenze della figlia e svalutazione monetaria;
  • con il secondo motivo fa presente che, anche in base alle dichiarazioni della figlia, la stessa ha iniziato a lavorare, seppure con contratti a termine e part-time, per cui può considerarsi economicamente indipendente. La Corte d'appello quindi non ha applicato i principi giuridici sanciti in materia di mantenimento dei figli maggiorenni;
  • con il terzo lamenta la mancata ammissione di prove finalizzate a dimostrare le reali condizioni economiche dalla moglie, convivente con un altro uomo e il mancato ordine di esibizione da parte della Corte delle buste paga della figlia, al fine di accertare il reddito effettivo della stessa, non essendo sufficiente la valutazione delle buste paga di dicembre 2017 e dei primi 3 mesi del 2018.

Contributo dovuto, i contratti a termine non provano l'autonomia della figlia

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La Corte di Cassazione, poco convinta delle ragioni sollevate dal padre, con l'ordinanza n.19077/2020 ne rigetta il ricorso per i motivi che si vanno a illustrare.

Per quanto riguarda il mantenimento della figlia la Corte ribadisce che il criterio ispiratore dei provvedimenti che riguardano i figli di genitori separati o divorziati è di tutelare il loro interesse primario. Il giudice non è vincolato dalla richieste e dagli accordi dei coniugi, anche se i figli sono maggiorenni, perché le esigenze di tutela sono le stesse, visto che anche il figlio maggiorenne può non essere ancora autosufficiente dal punto di vista economico.Non si può parlare, in relazione al contributo al mantenimento per i figli, di proposizione di una domanda nuova in appello. La Corte inoltre nel caso di specie, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, ha valorizzato le circostanze successive al 2015, anno della sentenza, per cui trattasi di fatti sopravvenuti.

Inammissibile il secondo motivo perché il padre contesta la ricostruzione fattuale della vicenda, fondando la sua denunciata violazione di legge sulla ritenuta "prova" dell'autosufficienza economica della figlia. Prova che in realtà non è stata raggiunta. La Corte infatti ha valutato la situazione della figlia nel suo complesso, tenendo conto delle buste paga, della residenza anagrafica presso la madre, della cessazione del lavoro in Svizzera. Informazioni da cui ha dedotto il mancato raggiungimento dell'autonomia economica da parte della figlia, ribadendo il diritto della stessa a conservare un tenore di vita, per quanto possibile, simile a quello goduto in famiglia.

Inammissibile infine anche il terzo motivo perché le censure criticano la valutazione effettuata dalla Corte, censurando la scelta delle risultanze probatorie idonee a sostenere la decisione, che come è noto non è sindacabile in sede di legittimità.

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Scarica pdf Cassazione n. 19077/2020

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