Il consulente di parte è tenuto a risarcire il Ctu se con le sue osservazioni travalica i limiti della continenza, usando toni sarcastici e denigratori

di Annamaria Villafrate - La Cassazione con la sentenza n. 12490/2020 (sotto allegata) respinge il ricorso di un consulente di parte condannato in primo e secondo grado alla pena di giustizia e a risarcire il Ctu, per averlo diffamato in una relazione redatta per una causa civile. La Corte ribadisce nella motivazione che il diritto di critica trova un preciso limite nella continenza. Per cui se i toni impiegati sono eccessivamente aspri, offensivi e denigratori rispetto a ciò che si deve esprimere si incorre nel reato di diffamazione.

Condanna per diffamazione

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La Corte d'Appello conferma la sentenza di condanna di primo grado emessa nei confronti dell'imputato, responsabile del reato di diffamazione aggravata per aver offeso la reputazione del Ctu, in una relazione di parte redatta nell'ambito di una causa civile. Alla pena pecuniaria di giustizia la Corte aggiunge l'obbligo di risarcire i danni arrecati alla parte offesa, liquidati in 7000 euro.

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Dolo richiesto ai fini del reato

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L'imputato ricorre in Cassazione sollevando tre motivi di ricorso.

  • Con il primo motivo contesta il fatto che la Corte d'Appello lo abbia condannato, non per l'inesattezza delle sue osservazioni all'operato complessivo del consulente d'ufficio, quanto per la severità e il tono eccessivamente denigratorio del lavoro altrui. Quanto al dolo richiesto ai fini del reato l'imputato
    fa presente che lo scopo della sua relazione non era certo quello di screditare il consulente d'ufficio, ma semplicemente di rendere la propria esposizione più convincente. Del resto i due esperti non avevano mai avuto precedenti rapporti di conoscenza, per cui non avrebbe avuto alcuna ragione di astio nei confronti del Ctu.
  • Con il secondo denuncia violazione della legge penale da parte della Corte d'Appello per non aver considerato prevalenti le attenuanti generiche.
  • Con il terzo contesta l'entità liquidata a titolo di risarcimento in favore della persona offesa.

Il consulente di parte deve risarcire il Ctu se le critiche sfociano in denigrazione

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La Cassazione con la sentenza n. 12490/2020 rigetta il ricorso del ricorrente.

Il primo motivo appare del tutto infondato. Contrariamente da quanto sostenuto dall'imputato, ai fini del reato di diffamazione rilevano anche i toni con cui ci si esprime. E' infatti consolidato principio giurisprudenziale quello secondo cui "in tema di diffamazione, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano meramente gratuiti, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere; in tema di diffamazione, dunque, il requisito della continenza postula una forma espressiva corretta alla critica rivolta, ossia strettamente funzionale alla finalità della disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione all'altrui reputazione (...)"

La Cassazione ritiene che la corte d'Appello abbia applicato correttamente detti principi in quanto la sentenza ha definito i toni utilizzati dall'imputato nella relazione come esagerati, sarcastici, offensivi in modo gratuito, sbeffeggianti, denigratori e gratuitamente infamanti.

La sentenza di primo grado ha evidenziato inoltre, come in un passaggio della relazione, l'imputato abbia accusato il Ctu di preoccuparsi "di voler tutelare la reputazione del reparto di ortopedia presso il quale prestata servizio." Le censure del ricorrente non riescono a far crollare il filo logico argomentativo della sentenza e il nucleo essenziale della decisione, che si concentra sul superamento del limite della continenza causato dall'utilizzo di espressioni sovrabbondanti, denigratorie e del tutto sproporzionate rispetto alla finalità critico-tecnico dell'elaborato, come quelle con cui si accusa il Ctu di incompetenza o come meglio definita dall'imputato "precaria conoscenza della medicina legale."

Infondata anche la censura sul dolo, visto che per la sussistenza del reato è sufficiente quello generico, che comporta l'utilizzo da parte del soggetto agente di espressioni comunemente interpretabili come offensive, in base al loro significato oggettivo.

Da rigettare anche il secondo e il terzo motivo del ricorso. La Corte ha negato la prevalenza delle attenuanti generiche perché ha valorizzato il contesto, ossia il fatto che la diffamazione si è realizzata attraverso l'esercizio di un incarico giudiziario, che avrebbe sicuramente richiesto un maggiore scrupolo nell'utilizzo delle parole. Infondato infine il terzo motivo perché finalizzato a ottenere un nuovo giudizio di merito e perché anche in questo caso la Corte, nel determinare l'importo del risarcimento, ha tenuto conto del discredito causato alla parte civile, che godeva nel suo ambiente di un certo prestigio.

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Foto: 123rf.com
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