Il proprietario di un fondo non può essere considerato responsabile per il danno ambientale cagionato da terzi. Ai fini della responsabilità, è necessario provare sempre il nesso causale
di Enrico Pattumelli - La pronuncia della Corte di Cassazione n. 17045/2018, seppur afferisca ad una situazione verificatasi prima dell'entrata in vigore del codice dell'ambiente (d. lgs. 152/2006), permette di operare una ricognizione sulle ipotesi in cui il proprietario possa essere ritenuto responsabile per il danno ambientale verificatosi sul proprio fondo.

Il caso di specie

Una società era proprietaria di un fondo situato nella zona industriale di Venezia - Porto Marghera.

La predetta area era interessata da una grave forma di inquinamento e, per questo motivo, era stato oggetto di un programma di bonifica e di disinquinamento.

La società, quale proprietaria del fondo, era convenuta in giudizio dai Ministeri dell'Ambiente e delle Infrastrutture per far accertare e dichiarare la relativa responsabilità nell'aver cagionato un danno ambientale ex artt. 2051 c.c., 17 d. lgs. 22/1997 e 18 L. 349/1986.

Nello specifico, si sosteneva che la convenuta fosse responsabile della diffusione incontrollata degli inquinanti presenti sul proprio fondo avvenuta, o comunque agevolata, dalla mancata adozione delle misure di sicurezza prescritte dalla legge o suggerite dalle comuni regole di esperienza.

La società, costituitasi in giudizio, eccepiva l'infondatezza della pretesa e sosteneva la propria estraneità ai fatti contestati.

La convenuta, rilevava in modo dettagliato che: non era stata fornita la prova dell'inquinamento sulla predetta area; l'atto di citazione era stato notificato solo sette mesi dopo l'acquisto dell'area, individuandosi così un lasso di tempo eccessivamente breve per poter essere autrice di tale danno ambientale; la notorietà dell'inquinamento presente nella zona e risalente nel tempo avrebbe dovuto indurre lo Stato ad adottare le misure necessarie per evitare il danno.

Sulla base di quest'ultimo rilievo, e a fronte delle stesse inadempienze statali si chiedeva, in subordine al rigetto della domanda, la liquidazione equitativa e ridotta del danno ex art. 1227 c.c..

Il Tribunale di Venezia riconosceva la società proprietaria del fondo quale responsabile del danno ambientale verificatosi.

La decisione veniva però riformata dalla Corte d'Appello di Venezia, la quale escludeva la responsabilità della società.

I Ministeri coinvolti proponevano ricorso in Cassazione.

Il quesito di diritto

Il proprietario di un fondo, in virtù degli obblighi di custodia cui è tenuto ex art. 2051 c.c., può essere considerato responsabile se si dovesse verificare un danno ambientale?

Formulandola diversamente: la diffusione di agenti inquinanti su di un'area può essere addebitata al proprietario ritenendo che questi non abbia adempiuto ai propri obblighi di custodia?

La posizione della Cassazione

La Corte di Cassazione con la sentenza in commento, n. 17045 del 2018, rigetta il ricorso confermando quando statuito dai giudici d'appello, in sintonia con gli orientamenti giurisprudenziali elaborati in materia.

Innanzitutto si osserva che non possa essere esaminata la violazione dell'art. 2051 c.c. in quanto i ricorrenti non hanno censurato la sentenza di secondo grado nella parte in cui si affermava sia che la normativa ambientale speciale fosse derogatoria rispetto quella generale, sia che le opere di bonifica esulassero dagli obblighi di custodia previsti dalla stessa disposizione.

Si rileva altresì che i fatti contestati si sono verificati in un'epoca anteriore all'entrata in vigore del codice dell'ambiente motivo per cui la questione deve essere affrontata considerando quanto previsto dalla disciplina previgente e, dunque, dall'art. 17 del d. lgs. 22/1997.

La norma da ultimo citata prevedeva che l'obbligo di adottare misure idonee a fronteggiare una situazione di inquinamento spettasse unicamente in capo a colui che vi avesse dato causa.

Ne derivava che, ai fini della responsabilità per danno ambientale, fosse necessario provare il nesso di causalità sussistente tra la condotta omissiva del soggetto e l'avvenuta contaminazione dei luoghi.

Proseguendo l'analisi della disposizione si prevedeva che, qualora i responsabili non avessero provveduto a ripristinare lo stato dei luoghi o non fossero stati individuati, gli interventi di recupero e di bonifica sarebbero gravati sulla PA competente, potendosi quest'ultima rivalere sulle aree bonificate, con un'azione gravata da onere reale e privilegio speciale immobiliare.

La disciplina previgente risultava così essere ispirata all'attuale e fondante principio del "chi inquina paga".

Già allora si desumeva che il proprietario del fondo, non autore della violazione, non potesse essere gravato da alcun obbligo di ripristino dello status quo ante, fatta eccezione per quelli derivanti da vincoli esistenti sul fondo medesimo.

Applicando le coordinate così tracciate al caso di specie, gli ermellini ritengono che il ricorso sia inammissibile.

Non essendosi riscontrato un nesso causale tra l'attività svolta dalla società e la contaminazione ambientale, non essendovi alcuna modificazione del luogo che abbia fatto insorgere una situazione eccezionale e urgente, non riconoscendosi un obbligo di ripristino in capo al proprietario che non sia autore del danno ambientale, la responsabilità della società deve essere esclusa.

La disciplina vigente in materia ambientale

La pronuncia della Cassazione offre l'occasione per poter considerare l'attuale disciplina prevista in tema di danno ambientale, cogliendo altresì la continuità rispetto alla normativa previgente.

In ambito civilistico la responsabilità per il danno ambientale, sub specie di inquinamento, è oggi regolata dagli artt. 239 e ss. del codice dell'ambiente (d. lgs 152/2006).

L'art. 239 del succitato decreto esplicita che la materia di cui si discute è ispirata al principio di origine europea del "chi inquina paga".

L'art. 242 prevede che il danneggiante e dunque, colui che sia il responsabile del danno ambientale cagionato, è obbligato a ripristinare lo stato dei luoghi ossia è tenuto ad eliminare le conseguenze dannose dell'illecito.

Si prevede così un risarcimento del danno in forma specifica che presuppone l'accertamento della responsabilità.

Un medesimo obbligo non si riconosce invece in capo al proprietario del bene in cui si è verificato il danno ambientale.

Relativamente a tale ultimo soggetto, la legge prevede una facoltà di ripristino qualora il danno sia cagionato da terzi e impone solo degli obblighi di adottare le dovute misure di prevenzione e di sicurezza.

In altri termini, il legislatore ha riconosciuto in capo al proprietario una responsabilità qualora il danno ambientale sia conseguenza di inadempienze o negligenze nell'adozione delle misure di prevenzione ma, una siffatta responsabilità è esclusa qualora il danno venga cagionato da terzi.

L'art. 250 prevede che qualora il terzo danneggiante non abbia provveduto a ripristinare lo stato dei luoghi o questi non sia individuato o individuabile, l'obbligo di intervenire per tutelare l'interesse pubblico sotteso spetta in capo all'amministrazione competente.

L'intervento della PA

La PA si fa carico della situazione venutasi a creare a seguito dell'illecito, sopportando il costo economico necessario per il ripristino.

L'art. 253 prevede che la PA intervenuta possa rivalersi sulla proprietà. Non si tratta di una semplice azione di rivalsa in quanto il legislatore vi affianca un onere reale e un privilegio speciale immobiliare.

L'ente pubblico potrà così rivalersi sulla proprietà, a prescindere così da chi ne sia il proprietario, entro e non oltre il valore riconosciuta alla stessa.

Se l'intervento di bonifica e di ripristino da parte della PA comportano delle migliorie per il bene, e si configurano come un arricchimento per il proprietario, è legittimo chiedere a quest'ultimo la restituzione di tale valore.

Siffatte limitazioni sono imposte proprio perché il proprietario del bene, che non sia l'autore del danno ambientale, non può essere ritenuto responsabile.

Ammettere un'azione di rivalsa non condizionata, implicitamente vorrebbe significare riconoscere il proprietario come responsabile e condannarlo al risarcimento per equivalente.

Prevedere l'intervento pubblico ed escludere la responsabilità del proprietario inducono a rilavare che, a prescindere dall'esercizio dell'azione di rivalsa, vi sarà sempre e comunque un costo che dovrà essere sopportato dalla collettività.

Ci si è chiesti se una tale soluzione possa ritenersi opportuna in un'ottica di giustizia sostanziale.

A fronte della normativa speciale che esclude la responsabilità del proprietario, si è cercato di rinvenire il fondamento in altre norme dell'ordinamento.

Un tentativo è stato quello, come nel caso di specie, di applicare analogicamente quanto previsto dall'art. 2051 c.c.

Si tratta di una soluzione non condivisibile per una serie di ragioni.

In primis, l'applicazione analogica si ammette in presenza di una lacuna normativa che in tale caso non si rinviene date le disposizioni del codice dell'ambiente.

In secundis, la norma in questione disciplina la responsabilità del custode e dunque di colui che detiene un potere di fatto, ossia di governo e di controllo del bene. Non è detto che il proprietario possa essere assimilato al custode.

Ulteriore rilievo è che difficilmente gli obblighi di custodia possano ricomprendere interventi di bonifica e di disinquinamento richiesti per fronteggiare un danno ambientale.

Da ultimo, la responsabilità civile è generalmente di tipo soggettivo ossia è necessaria un'imputabilità a titolo di dolo o di colpa.

Come noto, il legislatore prevede eccezionalmente dei modelli di responsabilità derogatori rispetto a quello generale ma questi sono sempre accomunati da un fattore comune: è necessario che sussista il nesso di causalità tra la condotta del soggetto e l'evento cagionato.

Nonostante gli sforzi ermeneutici, l'impianto normativo così descritto è stato confermato dalla giurisprudenza civile, amministrativa, costituzionale e, da ultimo, europea.

In ambito unionale, il principio fondamentale in materia ambientale è quello del "chi inquina paga" desumibile dall'art. 191 par. 2 TFUE e dalla direttiva 2004/35/CE.

La stessa Corte di Giustizia, con la sentenza 534 del 2015 emessa a seguito del rinvio pregiudiziale operato dall'Adunanza Plenaria, ha ritenuto la disciplina nazionale conforme a quella europea.

Il tenore letterale del principio suesposto è sintomatico del fatto che il responsabile per il danno ambientale è unicamente colui il quale ha cagionato il danno.

La responsabilità per il danno ambientale, oggettiva o soggettiva che sia, necessita e non può mai prescindere dall'accertamento del nesso causale che leghi la condotta posta in essere con il verificarsi dell'evento.

Opinare diversamente vorrebbe dire riconoscere una responsabilità da mera posizione.

Si potrebbe dunque concludere affermando che, a livello europeo, la responsabilità del proprietario per il danno ambientale cagionato da terzi, non solo non è imposta in capo ai singoli legislatori nazionali ma è un'ipotesi direttamente esclusa dalla stessa Corte di Giustizia.

Cass. Civ., Sez. III, sentenza 17045/2018

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