Per la Cassazione la misura non è comprimibile e va riconosciuta in maniera identica rispetto al lavoratore a tempo pieno

di Lucia Izzo - Anche al lavoratore che osserva un orario di lavoro part-time (verticale) va riconosciuto il diritto a usufruire dei tre giorni di permesso al mese riconosciuti dall'art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992, nonchè il correlato diritto a percepire la relativa indennità a carico dell'Inps.


La misura, infatti, non è comprimibile e va riconosciuta in maniera analoga a quella del lavoratore a tempo pieno avendo, sostanzialmente, la finalità di tutelare la salute psico-fisica del disabile quale diritto fondamentale dell'individuo tutelato dall'art. 32 Cost., sia come singolo che nelle formazioni sociali (art. 2 Cost.). Lo ha precisato la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 4069/2018 (qui sotto allegata).

La vicenda

Innanzi al Collegio ricorre l'Inps (assieme alla datrice di lavoro), avverso la sentenza che aveva riconosciuto il diritto di una dipendente di Poste Italiane, con orario part-time verticale (dalle 8,30 alle 14,30 dal lunedì al giovedì), a usufruire dei tre giorni al mese ex art 33, comma 3, L. n. 104/1992 e a percepire la relativa indennità a carico dell'Istituto.


La lavoratrice aveva lamentato in sede di merito come il datore di lavoro avesse riproporzionato, in considerazione del part-time verticale, da tre a due il numero di giorni di permesso mensili spettanti, sebbene già con precedente sentenza, passata in giudicato, il Tribunale avesse riconosciuto il suo diritto a fruire di tre giorni, con condanna del datore al risarcimento del danno (in relazione al periodo 2001-2009)

Nella sua decisione, la Corte d'Appello ha evidenziato come dal 2009 fosse divenuto l'Inps l'istituto deputato al riconoscimento dei permessi e che Poste, in base a quanto precisato dall'Istituto con circolare 133/2000, aveva ridotto il numero dei permessi a due.

Per la Corte territoriale, correttamente il Tribunale, in mancanza di una norma espressa, aveva fatto ricorso al principio di non discriminazione di cui ex art. 4, d.lgs. n 61/2000 inoltre, per i giudici, la mancata previsione di detti permessi nell'elenco di cui alla lettera a) del comma 2 non sarebbe stata dirimente atteso che tale norma era costituita da due parti di cui la prima enunciava il principio di equiparazione dei diritti e la seconda parte conteneva un elenco non tassativo.

Cassazione: tre giorni di permesso 104 anche ai lavoratori part-time

In Cassazione ricorrono sia l'Inps che Poste Italiane, ma ambedue le domande vengono respinte. Gli Ermellini ritengono di dover dar seguito all'interpretazione enunciata nella recente sentenza n. 22925/2017.

Leggi anche: Legge 104: la Cassazione riscrive il rapporto tra il diritto ai permessi e il part-time

L'art 33 della Legge 104, rammenta la Cassazione, riconosce al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa.

La Corte passa poi a valutare la questione del se detti permessi mensili attribuiti al genitore debbano o meno essere riproporzionati nella misura di due, invece di tre, nell'ipotesi in cui il genitore osservi un orario di lavoro articolato su 4 giorni alla settimana con orario 8,30-14,30, c.d. part-time verticale.

Sul punto, i giudici ripercorrono quanto stabilito dall'art 4 del d.lgs. n. 61/2000 (Testo unico sul part-time) che, dopo aver sancito il principio di non discriminazione (in base al quale il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno), elenca alla lettera a) "i diritti" del lavoratore a tempo parziale e, alla successiva lettera b), esamina i trattamenti "economici" che possono essere riproporzionati.

Il sostanza, il legislatore ha inteso distinguere fra quegli istituti che hanno una connotazione patrimoniale e che si pongono in stretta corrispettività con la durata della prestazione lavorativa (per i quali è ammesso il riproporzionamento) e istituti riconducibili a un ambito di diritti a connotazione non strettamente patrimoniale, che si è inteso salvaguardare da qualsiasi riduzione connessa alla minore entità della durata della prestazione lavorativa.

Poiché i permessi in esame non sono menzionati nella norma, spetta all'interprete il compito di ricercare l'opzione maggiormente aderente, in base al dato normativo, al rilievo degli interessi in gioco e alle sottese esigenze di effettiva tutela.

Come affermato dal precedente della Cassazione sopra citato, il permesso mensile retribuito di cui all'art. 33, comma 3, L. 104/1992 costituisce espressione dello Stato sociale e uno strumento di politica socio assistenziale basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale e intergenerazionale.

Si tratta, in definitiva, di una misura destinata alla tutela della salute psico-fisica del disabile quale diritto fondamentale dell'individuo tutelato dall'art. 32 Cost., che rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all'uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).

Stante tale finalità, la Cassazione conclude nel senso che il diritto ad usufruire dei permessi costituisce un diritto del lavoratore non comprimibile e da riconoscersi in misura identica a quella del lavoratore a tempo pieno. Come già precisato sempre nel precedente giurisprudenziale, la fruizione dei permessi in oggetto non costituisce un irragionevole sacrificio per la parte datoriale.

Cass., sezione lavoro, sent. n. 4069/2018

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