I giudici del Palazzaccio stilano un vademecum sugli elementi necessari ai fini della configurabilità del mobbing e ribadiscono la necessità dell'intento persecutorio e l'onere della prova gravante sul lavoratore
Avv. Francesco Pandolfi - In diverse occasioni di commento e analisi di sentenze abbiamo notato che il mobbing è realmente un fenomeno trasversale, in grado di colpire tutti gli ambienti di lavoro.

Il mondo della scuola non si sottrae, in astratto, a questo tipo di vicende.

Ovviamente, anche in questo come in altri casi riguardanti diversi contesti lavorativi, vale lo stesso principio processuale di sempre: chi agisce in giudizio per chiedere l'accertamento dell'esistenza di un fenomeno di mobbing non può limitarsi a riferirlo, ma deve provarlo, pena la soccombenza.

Lo spunto che viene da un caso concreto in Cassazione

L'esempio tratto da una vicenda concreta serve solo come aggancio per argomentare, più in generale, sui criteri che guidano tutti gli altri interessati all'azione nel processo risarcitorio.

Dunque, la vicenda portata all'attenzione della Cassazione è rappresentata da una causa nata su impulso di un direttore dei servizi generali ed amministrativi alle dipendenze di una scuola media, il quale si sente vittima di angherie e in genere attività persecutorie ad opera della preside.

Mobbing: il vademecum della Cassazione

Gli Ermellini tuttavia (ordinanza n. 21262/2017 sotto allegata) ricordano che ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, "il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato:

a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;

b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;

d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. n. 17698/2014)".

Mobbing: va provato l'intento persecutorio

Gli elementi sopraindicati, tutti da dimostrare da parte del lavoratore, su cui grava l'onere della prova in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c., "implicano la necessità - ricordano dal Palazzaccio - di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell'intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (Cass. n. 7382/2010).

La necessità della sussistenza dell'elemento soggettivo, ossia dell'intento persecutorio, è stata peraltro riaffermata di recente dalla Cassazione (v. Cass. n. 2142/2017; Cass. n. 2147/2017).

Pertanto, si legge ancora nella sentenza, "il mobbing, venendo in rilievo il principio del neminem ledere, sia pure nel più ampio contesto di cui all'art. 2087 c.c., la cui violazione deve essere fatta valere con autonoma azione -non - è riconducibile a mera colpa, occorrendo la prova di un intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi".

Cosa fare in causa per dimostrare il mobbing

Al di là degli esiti della specifica causa in commento, in generale si può consigliare a chi intraprende questo tipo di procedura un'azione tecnico-giuridica architettata su fronti diversi.

Che cosa significa questo?

Significa che l'attore si dovrà attrezzare per dimostrare quanto assume in giudizio.

Tradotto: il giudice di merito (quindi il magistrato che si interessa della vicenda prima della Cassazione):

1) dovrà avere chiari i comportamenti persecutori, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, posti in essere a danno della vittima in modo mirato e sistematico in un discreto lasso di tempo,

2) dovrà disporre e valutare la prova offerta da chi agisce in modo che sia chiaro che le azioni vessatorie provengono dal datore di lavoro, oppure da un preposto o anche da altri dipendenti sottoposti al potere direttivo dei primi,

3) dovrà avere a disposizione tutto il corredo di documenti medico clinici che dimostrino il nesso causale tra fatti lesivi e danno alla salute,

4) dovrà quindi essere messo nelle condizioni di appurare immediatamente e facilmente il nesso eziologico tra il mobbing e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria dignità e/o integrità psico fisica,

5) dovrà infine essere agevolato nel ricostruire l'intento persecutorio che unifichi tutti i comportamenti lesivi.

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Cassazione, ordinanza n. 21262/2017
Francesco Pandolfi
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Si occupa principalmente di Diritto Militare in ambito amministrativo, penale, civile e disciplinare ed и autore di numerose pubblicazioni in materia.
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