Non c'è diffamazione. Se le offese sono pronunciate dall'imputato in udienza deve ritenersi applicabile l'esimente di cui all'art. 598 c.p.

di Valeria Zeppilli - Insultare il proprio ex marito davanti al giudice di pace non è una condotta diffamatoria. Così almeno la pensa la Corte di Cassazione che, con la sentenza numero 34793 del 10 agosto 2016 (qui sotto allegata), ha confermato l'assoluzione di una donna imputata del reato di diffamazione per aver proferito in udienza più volte epiteti del tenore di "malato mentale, drogato, alcolizzato".

Per i giudici, infatti, nel caso in esame deve ritenersi sussistente l'esimente di cui all'articolo 598 del codice penale, relativa alla non punibilità delle offese contenute in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie e amministrative funzionali al libero esercizio del diritto di difesa.

Del resto, nel corso del processo era emerso pacificamente che tra moglie e marito vi era una forte conflittualità e che la donna aveva pronunciato quelle frasi nel corso del suo esame dibattimentale "quando aveva perso il controllo nel rispondere alle domande sui fatti oggetto del processo penale e riguardanti sempre i rapporti problematici con l'ex marito". In quel processo, oltretutto, la donna era imputata e l'ex coniuge persona offesa: l'ottica con la quale è stata posta in essere la condotta diffamatoria, quindi, era chiaramente quella difensiva.

La Corte ha inoltre ricordato che l'esimente di cui all'articolo 598 del codice penale rappresenta un'applicazione estensiva del principio posto dall'articolo 51 del codice penale relativamente all'esercizio di un diritto o all'adempimento di un dovere e può essere applicata purché le offese riguardino l'oggetto della causa in maniera diretta e immediata.

Non è richiesto, invece, anche che le offese abbiano un contenuto minimo di verità o che questa possa essere in qualche modo dedotta dal contesto: l'interesse tutelato, infatti, è la libertà di difesa nella sua correlazione logica con la causa.

La donna, insomma, è stata correttamente assolta dal giudice del merito perché il fatto non costituisce reato.

Corte di cassazione testo sentenza numero 34793/201
Valeria Zeppilli

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