Nota di commento alla sentenza della Corte di Cassazione sez. penale n. 950 del 13 gennaio 2015

di Avv. Francesco Pandolfi - Non vi è dubbio che l'ordinamento giuridico italiano detti una normativa assai complessa in materia di attività venatoria, che collega ad un tempo i diritti e i doveri di chi esercita la caccia con la necessità di proteggere la fauna selvatica e le specie protette, nonché con l'esigenza di prevenire o comunque evitare l'inutile maltrattamento di animali.


Normativa che, ultimamente, si è in qualche misura arricchita ed inasprita, nel senso che l'animale in se non viene più considerato oggetto di una tutela indiretta o secondaria, ma viene invece posto al centro del regime di tutele, assurgendo al rango di essere vivente dotato di sensibilità.

Un orientamento questo che ha preso vigore anche sulla scia di ferme pronunce giurisprudenziali.


Sicuramente da tener presente è che la Legge 22 novembre 1993, n. 473, di modifica dell'articolo 727 codice penale, ha cambiato il presupposto giuridico di fondo sotteso alla tutela penale degli animali, i quali attualmente sono da considerarsi essere viventi inteso il concetto in senso lato: cioè non basta più riferirsi alla nozione di maltrattamento degli stessi come strumento idoneo ad offendere il comune sentimento di pieta'.


In quest'ottica, va da se che chi si appresti all'esercizio dell'attività venatoria, debba essere vieppiù informato su quelli che sono i poteri e i limiti assegnati all'azione di caccia.


Quando l'attività venatoria è lecita e, per l'effetto, il cacciatore non è perseguibile?


L'attività della caccia (soprattutto in ambito di esercizio venatorio tramite richiami vivi) sarà in linea con le prescrizioni in ambito di protezione faunistica nel caso in cui si avvereranno i principi dettati dalle sottoindicate norme:


a) nei confronti degli animali potrà essere consentita ogni attivita' non vietata dalla Legge n. 157/92 "protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio";


b) per effetto dell'entrata in vigore della Legge 22 novembre 1993, n. 473, di modifica dell'articolo 727 codice penale, la sfera di garanzia dovrà essere ampliata attraverso l'introduzione del divieto di tenere condotte che possano far scaturire il maltrattamento dell'animale utilizzato come richiamo o della stessa preda catturata.


Il cacciatore, per essere rispettoso della legge, eviterà di utilizzare l'animale come richiamo non fisiologico.


Spieghiamo meglio: e' consentito l'uso di richiami vivi ma è vietato che a esseri viventi come gli uccelli siano arrecate sofferenze con l'impiego di questa tecnica.

Ai fini giuridici quello che importa è mantenere una condotta rispettosa di questi precetti, non essendo tollerabile lo strazio o la sevizia dell'animale, con la conseguenza che la legittimita' delle pratiche venatorie deve essere verificata alla luce delle norme di protezione a loro riservate.


Cosa può fare il cacciatore in caso di accusa ai sensi dell'art. 727 codice penale?


E' semplice: dovrà dimostrare di aver tenuto una condotta rispettosa della natura dell'animale con il quale si è posta in essere la pratica del "richiamo".

Quindi, ad esempio, non trattenendo con una corda allodole per strattonarle poi a terra con una fune nel momento in cui queste si alzino in volo fungendo da richiami.


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Francesco Pandolfi
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Si occupa principalmente di Diritto Militare in ambito amministrativo, penale, civile e disciplinare ed и autore di numerose pubblicazioni in materia.
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