Aveva portato il cane in ambulatorio in seguito ad un malore ed il veterinario gli somministrava una terapia per puntura di calabrone. Il cane, invece, era stato morso da una vipera e in poche ore entrava in coma e moriva. 

Il padrone del cane portava il veterinario davanti al giudice di pace di Montevarchi, chiedendo la condanna al risarcimento del danno subito a causa del decesso dell'animale, indotto dall'errata diagnosi del medico convenuto. Il giudice respingeva la domanda che, invece, veniva accolta in appello dal Tribunale di Arezzo che condannava il veterinario al risarcimento di 2.000,00 euro oltre accessori e spese. 

Il medico ricorreva, quindi, per Cassazione, dolendosi dell'insussistenza del nesso causale tra il comportamento da lui adottato nella specie e la morte dell'animale. 

Ma la Suprema Corte non ha dubbi: le statuizioni di merito sono corrette e il ricorso è inammissibile. Sulla scorta delle risultanze istruttorie conseguite, correttamente il Tribunale ha ravvisato l'effettiva responsabilità del medico

- si legge nella sentenza n. 16769 depositata il 23 luglio scorso - "nell'aver erroneamente diagnosticato una puntura di calabrone anzichè un morso di vipera, e nell'aver conseguentemente trascurato di adottare tutte le cautele che si imponevano per tentare di salvare l'animale da questo ben più grave evento (potenzialmente, ma non necessariamente, letale); - nel non aver, in particolare, tenuto il cane in debita osservazione per assicurargli le cure necessarie ad evitargli la morte". 

Né valgono ad interrompere il nesso causale tra il comportamento adottato dal veterinario e la morte del cane

, la serie di circostanze di fatto, addotte dallo stesso ricorrente, sull'idoneità della terapia cortisonica, sul ritardo nella richiesta di intervento da parte del padrone né sul rifiuto da parte dello stesso di trattenere l'animale in osservazione ambulatoriale. 

Tutte circostanze, che dovrebbero asseritamente indurre il capovolgimento del giudizio di responsabilità medico - veterinaria posto a base della decisione impugnata e che la Corte ha considerato inammissibili. Ritenendo il ragionamento seguito dal giudice d'appello "coerente e sufficientemente lineare", la S.C. ha ribadito, infatti, l'orientamento consolidato secondo il quale, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità "la sola facoltà di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito; al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti".


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