"Il licenziamento discriminatorio, sancito dall'art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall'art. 15 della legge n. 300 del 1970 e dall'art. 3 della legge n. 108 del 1990, è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, attuati a seguito di comportamenti risultati sgraditi all'imprenditore
, che costituisce cioè l'ingiusta ed arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa". E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 16925 del 3 agosto estendendo quindi la tutela prevista per i licenziamenti discriminatori a quelli per ritorsione o rappresaglia. Il caso preso in esame dai giudici di legittimità riguarda un lavoratore licenziato a seguito della richiesta, al datore di lavoro, del pagamento degli straordinari da lui effettuati mentre l'azienda giustificava il licenziamento per contrazione dell'attività aziendale. La Suprema Corte, sottolineando che il motivo oggettivo di licenziamento
determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva deve essere valutato dal datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa ma che spetta al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore, ha osservato che la Corte di merito rilevava la pretestuosità del dedotto riassetto organizzativo che si poneva in contrasto con l'assunzione di altro dipendente avvenuta pochi mesi prima del licenziamento. Correttamente, quindi, la Corte territoriale, ritenuta la natura ritorsiva del licenziamento intimato, ha provveduto all'applicazione del regime sanzionatorio previsto dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970.

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