Non può bastare la giusta causa per il licenziamento della lavoratrice madre

di Marina Crisafi - La lavoratrice madre può essere licenziata solo con colpa grave. Non è sufficiente la giusta causa. È questo il principio che si ricava dalla sentenza n. 2004/2017 della Cassazione (qui sotto allegata), chiamata a pronunciarsi sul licenziamento irrogato ad una donna per "assenza ingiustificata".

Nella vicenda, la dipendente, che aveva già alle spalle un licenziamento al quale era seguita la riammissione in servizio, veniva trasferita in un ufficio presso il quale tuttavia non si presentava, rimanendo assente ingiustificata per oltre sessanta giorni consecutivi. Il datore la licenziava invocando la clausola del contratto collettivo che permette la risoluzione del rapporto di lavoro del dipendente arbitrariamente assente dal servizio.

La donna impugnava il licenziamento in Cassazione, eccependo la nullità per violazione della normativa a tutela della maternità (art. 54 d.lgs. n. 151/2001), che prevede espressamente il divieto di licenziamento della lavoratrice madre, salvo che non ricorra la colpa grave della stessa.

I giudici di merito le davano torto ritenendo che l'assenza ingiustificata risultasse tra le cause di licenziamento per giusta causa previste dalla contrattazione collettiva, e poiché la donna non si era nemmeno presentata al momento del ripristino del rapporto di lavoro, la sua condotta integrava la fattispecie della colpa grave prevista dalla legge.

Ma la Cassazione non è d'accordo. E richiamando i principi espressi in precedenza (cfr. Cass. n. 19912/2011) e la decisione della Corte Costituzionale in materia (cfr. Corte Cost. n. 61/1991), ha accolto le doglianze della donna, statuendo che "la colpa grave della lavoratrice non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero da una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva - essendo, invece, necessario verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla norma (art. 3, lett. a), d.lgs. n. 151/2001) e diversa, per l'indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi d'inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto".

L'accertamento e la valutazione in concreto della colpa grave, ha sottolineato la Cassazione, spettano al giudice di merito, il cui ambito di indagine "deve estendersi ad un'ampia ricostruzione fattuale del caso concreto e alla considerazione della vicenda espulsiva nella pluralità dei sui diversi componenti". E tale più esteso, articolato e completo ambito di indagine "è conseguenza necessaria del carattere autonomo della fattispecie in esame e della sua peculiarità, in quanto la colpa grave, che giustifica la risoluzione del rapporto, è quella della donna che si trova in una fase di oggettivo rilievo nella sua esistenza, con possibili ripercussioni su piani diversi ed eventualmente concorrenti (personale e psicologico, familiare, organizzativo)".

Da qui, la parola al giudice del rinvio che dovrà indagare sulla sussistenza o meno della colpa grave alla stregua di un "adeguato rigore valutativo", giacchè la situazione da verificare oltre a dover "essere di gravità tale da giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro, si pone, nella disciplina di cui all'art. 54 d.lgs. n. 151/2001, come causa di esclusione di un divieto di licenziamento che attua la tutela costituzionale della maternità e dell'infanzia".

Cassazione, sentenza n. 2004/2017

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