Un caso di mobbing inverso: atti persecutori posti in essere dal dipendente verso il datore di lavoro

Dr. Sestilio Staffieri - Nei bandi di concorso per posti nel pubblico impiego si rinviene la clausola che stabilisce un obbligo di permanenza nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni, clausola che, oltre a costituire una disposizione della lex specialis del bando sulla quale il partecipante si assume la responsabilità del relativo vincolo, rappresenta prima di tutto una norma cogente prevista dall'art. 35, comma 5bis del D.Lgs n. 165/2001, il c.d. testo unico sul pubblico impiego.

Senonché una dipendente dell'Agenzia delle Entrate, incurante di tale obbligo e dell'assunzione del vincolo in sede di partecipazione al pubblico concorso, una volta assunta a tempo indeterminato, in quanto vincitrice del relativo concorso, ha chiesto, sin dai primi tempi, il trasferimento in altra sede ove si trovava la famiglia d'origine.

Al legittimo diniego dell'Agenzia, la dipendente ha reagito ponendo in essere una serie continua di istanze di accesso agli atti, ventilate denunce penali, ricorsi e domande di ogni tipo allo scopo di esercitare una pressione per ottenere il trasferimento in altra sede legittimamente denegatole in relazione al tipo di contratto concluso con l'Amministrazione. Questa, dopo aver ritenuto che i reiterati atti di denuncia e di istanze varie esasperavano l'ambiente di lavoro, stabilendo un clima di sfiducia tra i colleghi, ha sanzionato disciplinarmente la dipendente con il licenziamento.

Rivoltasi al Tribunale per ottenere giustizia, questo rigettava il ricorso ritenendo provato l'intento della dipendente di creare un "caso" al fine di ottenere per esasperazione il trasferimento creando un grave disagio nell'Ufficio ove operava; Anche la Corte di appello respingeva l'impugnazione della lavoratrice, osservando che "le era stato contestato un esercizio abusivo degli istituti a tutela del lavoratore pubblico attraverso una serie di iniziative e condotte che erano in realtà finalizzate e preordinate a creare una situazione di malfunzionamento e di disagio nell'Ufficio ove operava onde premere per ottenere il trasferimento nel luogo ove risiedeva la famiglia di origine.

Per la Corte territoriale l'elencazione neppure esaustiva delle continue istanze prodotte, necessariamente seguite da istruttorie e provvedimenti motivati dell'Amministrazione, rendeva evidente che ci si trovava di fronte ad un caso di scuola di abuso del diritto, trattandosi di istanze inutili e meramente di disturbo.

La gravità della condotta ascritta era innegabile visto che tale comportamento aveva sottratto energie preziose all'Ufficio ove operava alterando il clima di fiducia e di fattiva e leale collaborazione. Comportamenti che comprovavano la mancanza di buona fede e la lesione degli obblighi di fedeltà e correttezza del pubblico dipendente.

Ricorre in Cassazione la dipendente. Quest'ultima accerta che ciascuna delle istanze, richieste, diffide, atti di messa in mora (etc.) presentate dalla ricorrente atomisticamente considerata ben poteva infatti essere ritenuta legittima, in quanto rivendicazione di interessi che la legge ha riconosciuto meritevoli di tutela. Solo intesi nella loro globalità tali atti possono costituire un abnorme utilizzazione di procedure previste a tutela del lavoratore costituenti un "abuso di diritto"; in questa prospettiva unitaria le richieste della lavoratrice sono apparse del tutto strumentali, in quanto quasi sempre inutili trattandosi di azioni di mero disturbo, al fine di ottenere (anche attraverso la velata prospettazione di denunzie ed esposti in sede penale dal contenuto minaccioso) quello che la dipendente non poteva ottenere e cioè il trasferimento in altra sede, impossibile per l'obbligo di rimanere nella sede di prima assegnazione per almeno 5 anni stabilito dal bando del suo concorso.

E' pacificamente riconosciuto che tale obbligo non è posto a tutela dell'ordinamento oggettivo ma è diretto a tutelare un interesse particolare dell'amministrazione, tanto è vero che la stessa ne può disporre discrezionalmente ove ne ravvisi le esigenze organizzative. Il risvolto di ciò è che il pubblico dipendente non ha diritto al trasferimento prima che trascorrano i 5 anni e, non essendo un obbligo oggettivo, non sussiste un diritto all'inamovibilità dello stesso dipendente entro i 5 anni dall'assegnazione.

Sentenza Cass. sez. lavoro 1248/2016

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