In tema di maltrattamenti in famiglia, la custodia cautelare in carcere rappresenta comunque l'ultima ratio, ove non sia possibile applicare misure meno invasive.

Lo ha stabilito la Cassazione, con sentenza n. 36392 del 28 agosto 2014, in una vicenda riguardante un uomo, indagato del reato di cui agli artt. 572, 61, n. 11-quinquies, c.p., commesso in danno della moglie e dei figli minori. Avverso l'ordinanza del Tribunale che, in accoglimento dell'appello, applicava la misura della custodia cautelare in carcere nei suoi confronti, l'uomo ricorreva per Cassazione deducendo violazioni di legge e carenze motivazionali in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari di cui alle lett. a) e c) dell'art. 274 c.p.p.

Gli Ermellini gli hanno dato ragione annullando l'ordinanza impugnata limitatamente all'adeguatezza delle misure cautelari e rinviando per nuova deliberazione sul punto.

Nonostante la "gravità del panorama indiziario" emerso, per avere l'indagato posto in essere "nell'intero arco del rapporto matrimoniale, una serie di violente aggressioni in danno della moglie e dei figli minori, idonee a rendere abitualmente doloroso e umiliante il quadro delle relazioni familiari", sotto il profilo dell'adeguatezza della misura cautelare prescelta, ha ribadito, infatti, la Cassazione, il giudice deve preventivamente e ineludibilmente valutare se possono essere applicate misure meno invasive e più appropriate, come quelle previste negli artt. 282-bis e 282-ter c.p.p., motivando adeguatamente sull'impossibilità della loro applicazione.

Si tratta, invero, ha sottolineato la Corte, di "tipologie di misure che devono essere modellate in relazione alle peculiarità della condotta illecita considerata, e che si caratterizzano per il fatto di affidare al giudice della cautela il compito, oltre che di verificare i presupposti applicativi ordinari, di riempire la misura di quelle specifiche prescrizioni ritenute essenziali per raggiungere l'obiettivo cautelare, ovvero per limitare le conseguenze della misura stessa".

Così, ad esempio, ha specificato la S.C., nel provvedimento di allontanamento dalla casa familiare "il giudice penale può prescrivere determinate modalità di visita del soggetto allontanato dalla abitazione coniugale, tenendo presenti le esigenze educative dei figli minori"; con il provvedimento di divieto di avvicinamento il giudice "deve individuare i luoghi ai quali l'indagato non può avvicinarsi e in presenza di ulteriori esigenze di tutela può anche prescrivere di non avvicinarsi ai luoghi frequentati dai parenti della persona offesa e, addirittura, indicare la distanza che l'indagato deve tenere da tali luoghi o da tali persone". Spetta, inoltre, al giudice, "vietare che l'indagato comunichi con la vittima, indicando i mezzi vietati" e qualora la frequentazione dei luoghi sia necessaria per lavoro o esigenze abitative, prescriverne le modalità e imporne i limiti.


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