Dalla sentenza di Zugo alle prospettive del Diritto Comparato

Una Nuova Frontiera della Giustizia Climatica

Il diritto ambientale internazionale ha raggiunto un punto di svolta storico con la decisione del Tribunale Cantonale di Zugo che, per la prima volta in Svizzera, ha accettato di entrare nel merito di una causa climatica intentata da quattro pescatori dell'isola indonesiana di Pari contro il colosso del cemento Holcim. Questa pronuncia, che segna un precedente giuridico di portata internazionale, rappresenta l'applicazione più avanzata del principio "chi inquina paga" nel contesto delle controversie climatiche globali, aprendo scenari inediti per la responsabilità civile delle multinazionali nei confronti dei danni causati dai cambiamenti climatici.

La vicenda si inserisce in un panorama giuridico in rapida evoluzione, dove oltre 3.099 cause climatiche sono state intentate in 55 giurisdizioni nazionali e 24 corti internazionali al 30 giugno 2025, secondo il rapporto dell'UN Environment Programme. Questo fenomeno, noto come "climate litigation", sta ridefinendo i confini della responsabilità ambientale e configurando nuovi paradigmi di tutela giuridica per le comunità più vulnerabili agli effetti del riscaldamento globale.

Il Caso Holcim: Anatomia di una Decisione Storica

La decisione del Tribunale di Zugo assume particolare rilevanza non solo per il suo carattere pioneristico nel panorama giuridico svizzero, ma soprattutto per l'approccio metodologico adottato nell'interpretazione del principio "chi inquina paga" in chiave transnazionale. I quattro pescatori dell'isola di Pari chiedono al produttore di cemento con sede a Zugo un risarcimento per i danni climatici che minacciano la loro isola, un contributo finanziario alle misure di protezione contro le inondazioni e una rapida riduzione delle emissioni di CO2.

Il tribunale ha respinto le obiezioni sollevate da Holcim, che sosteneva come la protezione del clima non rientrasse nelle competenze della corte bensì del legislatore, riconoscendo invece che i ricorrenti hanno diritto alla tutela giuridica in quanto persone il cui sostentamento è direttamente influenzato dal cambiamento climatico. Questa argomentazione rappresenta un'evoluzione significativa nella giurisprudenza ambientale, poiché estende la legittimazione attiva oltre i confini territoriali tradizionali, riconoscendo un nesso causale diretto tra le emissioni industriali e i danni subiti da comunità geograficamente distanti.

La scelta di Holcim come convenuta non è casuale: secondo uno studio commissionato da HEKS e condotto dal Climate Accountability Institute, Holcim ha emesso più di 7 miliardi di tonnellate di anidride carbonica tra il 1950 e il 2021, circa lo 0,42% delle emissioni industriali globali totali nel periodo. Questo dato quantitativo fornisce la base scientifica per l'applicazione del principio "chi inquina paga" su scala globale, dimostrando come sia possibile tracciare un nesso causale tra le emissioni di specifiche aziende e i danni climatici subiti da comunità vulnerabili.

Il Principio "Chi Inquina Paga" nel Diritto Italiano

L'ordinamento italiano ha recepito il principio "chi inquina paga" attraverso una stratificazione normativa che trova il suo fondamento nell'art. 3-ter del Codice dell'ambiente, il quale stabilisce che "la tutela dell'ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio 'chi inquina paga'".

La giurisprudenza italiana ha progressivamente affinato l'interpretazione di questo principio, come evidenziato dalla Cassazione penale, Sez. III, sentenza n. 3148 del 6 aprile 1993, che ha chiarito come "con l'Atto Unico Europeo del 1986, artt. 130R, 130T, recepito in Italia con legge 909/86 sono stati introdotti nel nostro ordinamento giuridico tre principi relativi all'ambiente, che impegnano direttamente lo Stato italiano verso la Comunità e che devono essere applicati anche dai giudici perché fanno parte dell'ordinamento interno: principio della prevenzione; principio 'chi inquina paga'; principio delle possibilità di una protezione giuridica uguale a quella comunitaria o più rigorosa".

L'evoluzione giurisprudenziale più recente ha precisato i contorni applicativi del principio, come emerge dalla sentenza del TAR Piemonte n. 977 del 2022, secondo cui "il principio 'chi inquina paga' impone una netta distinzione tra la posizione del responsabile dell'inquinamento, tenuto agli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino, e quella del proprietario incolpevole, il cui obbligo si limita alle sole misure di prevenzione ai sensi dell'art. 245, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006".

L'Accertamento del Nesso Causale: Criteri e Standard Probatori

Un aspetto cruciale nell'applicazione del principio "chi inquina paga" riguarda l'accertamento del nesso causale tra la condotta inquinante e il danno ambientale. La giurisprudenza amministrativa ha elaborato criteri specifici, come evidenziato dalla sentenza del TAR Piemonte n. 1426 del 2025, secondo cui "l'accertamento del nesso di causalità si basa sul criterio del 'più probabile che non' e può avvalersi di presunzioni semplici, quali la vicinanza dell'impianto all'inquinamento e la corrispondenza tra sostanze inquinanti e componenti impiegati nell'attività produttiva, in applicazione del principio 'chi inquina paga' inteso come contribuzione al rischio di inquinamento".

Questo approccio metodologico trova conferma nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, come nella sentenza n. 6596 del 2024, che ha precisato come "la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, nell'interpretare il principio 'chi inquina paga', ha fornito una nozione di causa in termini di aumento del rischio, ovvero come contribuzione da parte del produttore al rischio del verificarsi dell'inquinamento".

La responsabilità ambientale assume carattere oggettivo, come chiarito dalla sentenza del TAR Veneto n. 1879 del 2024, secondo cui "per le attività pericolose non è richiesto l'accertamento dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa, configurandosi una forma di responsabilità oggettiva". Questo principio si estende anche alle persone fisiche che ricoprono ruoli apicali nelle società responsabili dell'inquinamento, poiché "l'individuazione del responsabile ai sensi degli artt. 244 e 245 del D.lgs. 152/2006 può legittimamente rivolgersi anche agli amministratori di società di capitali, in quanto 'operatori' ai sensi dell'art. 302, comma 4, del medesimo decreto".

La Responsabilità Civile per Danno Ambientale: Profili Risarcitori.

Il sistema di responsabilità civile per danno ambientale presenta caratteristiche peculiari che lo distinguono dalla responsabilità aquiliana tradizionale. La Cassazione civile, Sez. III, sentenza n. 32142 del 10 dicembre 2019 ha chiarito che "l'azione di rivalsa esercitata dal proprietario non responsabile dell'inquinamento che abbia spontaneamente provveduto agli interventi di bonifica ai sensi dell'art. 253, comma 4, D.Lgs. n. 152 del 2006 ha natura indennitaria e non risarcitoria, consistendo nel rimborso delle spese necessarie all'espletamento di una pubblica funzione".

Questa distinzione assume particolare rilevanza pratica, poiché comporta un alleggerimento dell'onere probatorio: "il proprietario deve provare esclusivamente l'esecuzione delle opere di bonifica secondo un progetto assentito dall'autorità amministrativa e la responsabilità oggettiva dell'inquinatore, intesa come nesso di derivazione causale tra l'attività esercitata e l'inquinamento riscontrato, senza dover dimostrare gli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana".

La giurisprudenza ha inoltre precisato i limiti della legittimazione attiva nelle controversie ambientali, come evidenziato dalla Cassazione penale, Sez. III, sentenza n. 1997 del 20 gennaio 2020, secondo cui "è legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale il cittadino che non si dolga del degrado dell'ambiente in sé, ma faccia valere una specifica pretesa in relazione a determinati beni, quali cespiti, attività e diritti soggettivi individuali, come quello alla salute".

Il Panorama Internazionale del Climate Litigation.

Il fenomeno del climate litigation ha assunto dimensioni globali, con oltre 3.000 cause climatiche che stanno ridefinendo le politiche climatiche globali. Questo trend crescente riflette l'inadeguatezza delle politiche climatiche attuali rispetto agli obiettivi dell'Accordo di Parigi e la crescente consapevolezza che i tribunali possano rappresentare un meccanismo efficace per garantire l'azione climatica e promuovere la giustizia climatica.

Le corti stanno sempre più riconoscendo la base scientifica delle rivendicazioni climatiche, inclusa la scienza dell'attribuzione che collega eventi meteorologici estremi specifici alle emissioni di gas serra. Queste decisioni contribuiscono a definire norme e obblighi globali, mentre si registra anche un aumento del contenzioso anti-climatico, con cause volte a deregolamentare le protezioni ambientali.

Particolarmente significativa è la tendenza verso l'utilizzo di argomentazioni basate sui diritti umani nelle cause climatiche, in parte dovuta al riconoscimento del diritto a un ambiente sano in più giurisdizioni e presso le Nazioni Unite. Il database delle cause climatiche comprende attualmente casi da oltre 55 paesi, con Stati Uniti, Regno Unito, Brasile e Germania in prima linea.

La Sentenza della CEDU: Un Precedente Vincolante per l'Europa.

Il panorama giuridico europeo ha subito una trasformazione epocale con la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che ha condannato la Svizzera per "inazione climatica". Con una sentenza destinata a passare alla storia, la CEDU ha condannato uno Stato per "inazione climatica", cioè per non aver adottato misure sufficienti a contrastare gli effetti negativi del cambiamento climatico.

La decisione ha stabilito che la Svizzera ha violato l'articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, relativo al diritto al rispetto della vita privata e familiare, nonché l'articolo 6, poiché i tribunali nazionali non hanno motivato adeguatamente il mancato esame nel merito del ricorso dell'associazione ricorrente e non hanno preso in considerazione le prove scientifiche che dimostrano gli effetti del cambiamento climatico.

Questa pronuncia crea un precedente vincolante per tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa, stabilendo che l'inadeguatezza delle politiche climatiche nazionali può configurare una violazione dei diritti umani fondamentali. I giudici hanno constatato come lo Stato elvetico non abbia ottemperato ai propri obblighi derivanti dall'Accordo di Parigi, individuando lacune nel processo di adeguamento normativo nazionale, inclusa la mancata quantificazione del parametro sul bilancio dell'anidride carbonica e quello della limitazione delle emissioni.

Le Prospettive del Diritto Comparato: Modelli e Convergenze.

L'analisi comparatistica rivela convergenze significative nell'applicazione del principio "chi inquina paga" a livello internazionale. Il modello olandese, consolidato dal caso Urgenda, ha stabilito che gli Stati hanno obblighi positivi di protezione climatica derivanti dai diritti umani fondamentali. La Corte ha ritenuto che l'inquinamento ambientale derivante da attività svolte o autorizzate dallo Stato costituisca violazione del diritto alla vita e al rispetto della vita privata e familiare.

Il sistema giuridico statunitense presenta il maggior numero di cause pendenti, con oltre 1.000 casi nel sistema giudiziario al febbraio 2020. Casi emblematici come Massachusetts v. Environmental Protection Agency hanno consentito all'EPA di regolamentare i gas serra sotto il Clean Air Act, dimostrando l'efficacia del contenzioso climatico nel promuovere politiche ambientali più stringenti.

Il panorama globale evidenzia una crescente sofisticazione nelle strategie legali, con le corti che scrutinano sempre più attentamente se le aziende abbiano rispettato il loro dovere di diligenza nell'affrontare i danni ambientali e sociali prevedibili. Mentre la maggior parte delle cause aziendali è stata intentata contro l'industria dei combustibili fossili, gli avvocati stanno sempre più prendendo di mira altri settori come compagnie aeree, alimentari e servizi finanziari.

L'Italia nel Contesto del Climate Litigation Globale.

Il sistema giuridico italiano si trova in una fase di transizione verso un approccio più incisivo al contenzioso climatico. La recente sentenza della Corte di Cassazione, secondo cui si può fare causa a un'azienda per i danni causati dal cambiamento climatico, rappresenta un precedente significativo che allinea l'Italia alle tendenze internazionali più avanzate.

Il quadro normativo italiano, fondato sul Codice dell'ambiente e sui principi costituzionali di tutela ambientale, offre strumenti giuridici adeguati per affrontare le sfide del contenzioso climatico. L'art. 452-bis del Codice penale sull'inquinamento ambientale e l'art. 311 del Codice dell'ambiente sull'azione risarcitoria in forma specifica forniscono la base giuridica per azioni di responsabilità climatica.

La giurisprudenza amministrativa italiana ha dimostrato particolare sensibilità nell'applicazione del principio "chi inquina paga", come evidenziato dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 1089 del 2017, che ha chiarito come "il principio 'chi inquina paga', nella sua accezione comunitaria desumibile dalla direttiva 2004/35/CE, configura una responsabilità ambientale oggettiva che, pur non ammettendo forme di responsabilità di mera posizione a prescindere dalla materiale causazione del danno o del pericolo ambientale, non richiede la prova dell'elemento soggettivo".

Le Sfide Processuali e Probatorie del Climate Litigation.

Il contenzioso climatico presenta sfide processuali peculiari che richiedono un approccio metodologico innovativo. La dimostrazione del nesso causale tra emissioni specifiche e danni climatici localizzati rappresenta la questione più complessa, richiedendo l'integrazione di competenze scientifiche, economiche e giuridiche.

La scienza dell'attribuzione climatica ha raggiunto livelli di sofisticazione che consentono di collegare eventi meteorologici estremi specifici alle emissioni di gas serra, fornendo la base scientifica per le rivendicazioni legali. Tuttavia, la traduzione di questi dati scientifici in prove giuridicamente rilevanti richiede standard probatori adeguati alla complessità del fenomeno climatico.

La giurisprudenza italiana ha sviluppato criteri probatori flessibili, come il criterio del "più probabile che non", che consente di superare le difficoltà probatorie tipiche del danno ambientale. Questo approccio, consolidato nella giurisprudenza amministrativa, potrebbe essere esteso al contenzioso climatico, consentendo l'utilizzo di presunzioni semplici basate su dati scientifici consolidati.

Responsabilità Societaria e Corporate Climate Accountability.

L'evoluzione del climate litigation ha portato a un'espansione della responsabilità societaria oltre i confini tradizionali. La giurisprudenza italiana ha chiarito che "il principio 'chi inquina paga' non esclude la responsabilità concorrente delle persone fisiche che hanno ricoperto ruoli apicali nelle società responsabili dell'inquinamento", estendendo la responsabilità agli amministratori e dirigenti.

Questa evoluzione riflette la necessità di evitare che lo schermo societario consenta l'elusione degli obblighi di ripristino ambientale, specialmente nei casi di società estinte o fallite. La responsabilità dell'amministratore non deriva dalla mera posizione ricoperta, ma deve essere accertata in concreto secondo il paradigma dell'art. 2050 c.c. sulla responsabilità per attività pericolose, con inversione dell'onere della prova.

Il fenomeno della corporate climate accountability si sta estendendo oltre l'industria dei combustibili fossili, coinvolgendo settori come il cemento, l'aviazione, l'agricoltura intensiva e i servizi finanziari. Questa espansione riflette la crescente consapevolezza che la responsabilità climatica non può essere limitata ai soli produttori di energia fossile, ma deve abbracciare tutti i settori ad alta intensità di carbonio.

Gli Sviluppi Futuri: Verso un Diritto Climatico Globale.

Il climate litigation sta evolvendo verso la configurazione di un vero e proprio diritto climatico globale, caratterizzato da principi comuni e standard condivisi. Due pareri consultivi saranno emessi da tribunali internazionali, la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) e la Corte Inter-Americana dei Diritti Umani, che insieme dovrebbero solidificare il legame giuridico tra azione climatica, diritti umani e l'obbligo degli Stati di proteggere i loro cittadini dai danni creati dalla crisi climatica.

Questi sviluppi preannunciano un'accelerazione del contenzioso climatico a livello globale, con implicazioni significative per le strategie aziendali e le politiche pubbliche. Le aziende dovranno integrare considerazioni climatiche nelle loro strategie di risk management, mentre gli Stati dovranno allineare le loro politiche climatiche agli standard internazionali emergenti.

Il principio "chi inquina paga" si sta evolvendo da strumento di politica ambientale a principio fondamentale di giustizia climatica, capace di ridistribuire i costi della transizione ecologica secondo criteri di equità intergenerazionale e giustizia distributiva. Questa evoluzione richiede un ripensamento delle categorie giuridiche tradizionali e l'elaborazione di nuovi strumenti processuali adeguati alla complessità delle sfide climatiche.

Verso una Nuova Stagione della Giustizia Ambientale

La sentenza del Tribunale di Zugo rappresenta molto più di un precedente giuridico isolato: essa segna l'ingresso del diritto nell'era dell'Antropocene, dove le attività umane hanno raggiunto una scala tale da influenzare i sistemi climatici globali. Il principio "chi inquina paga" si configura come il paradigma giuridico fondamentale per affrontare questa nuova realtà, offrendo strumenti concreti per la redistribuzione dei costi climatici secondo criteri di giustizia e responsabilità.

L'esperienza comparatistica dimostra che il successo del climate litigation dipende dalla capacità dei sistemi giuridici nazionali di adattare i propri strumenti processuali e sostanziali alle peculiarità del danno climatico. L'Italia, con il suo ricco patrimonio giurisprudenziale in materia ambientale e un quadro normativo solido, possiede le basi per diventare un protagonista di questa nuova stagione della giustizia ambientale.

La sfida per il futuro consiste nell'elaborazione di standard probatori adeguati, nell'integrazione delle competenze scientifiche nel processo decisionale giuridico e nella costruzione di meccanismi di enforcement efficaci a livello transnazionale. Solo attraverso questo sforzo coordinato sarà possibile trasformare il principio "chi inquina paga" da slogan politico a strumento concreto di giustizia climatica, capace di orientare la transizione verso un'economia sostenibile e di proteggere le comunità più vulnerabili dagli effetti dei cambiamenti climatici.

Il cammino è ancora lungo, ma la direzione è tracciata: il diritto si sta affermando come strumento indispensabile per affrontare la crisi climatica, trasformando i tribunali in arene decisive per il futuro del pianeta. In questo contesto, ogni pronuncia giurisprudenziale contribuisce a costruire un corpus di principi e precedenti che orienteranno le politiche climatiche delle prossime generazioni, rendendo la giustizia climatica non più un'aspirazione, ma una realtà giuridica concreta e operativa.


Erik Stefano Carlo Bodda è avvocato del foro di Torino, già iscritto nei fori di Madrid e Parigi ed abilitato alle difese avanti le Giurisdizioni Superiori.

Ha conseguito il diploma presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali della LUISS e ha operato in Europa, Africa, America latina e Medioriente.È fondatore dello studio legale BODDA & PARTNERS con sedi in Italia e all'estero.


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