Il CNF ribadisce che l'avvocato non può subordinare la restituzione dei documenti al pagamento del compenso: la violazione deontologica richiede una sanzione più grave del richiamo verbale

Divieto di trattenere i documenti per il pagamento del compenso

Subordinare la restituzione degli atti al pagamento delle competenze professionali integra una violazione del codice deontologico forense che non può essere considerata lieve né scusabile. Lo ha chiarito il Consiglio nazionale forense con la sentenza n. 208/2025, riaffermando il divieto previsto dall'art. 33, comma 2, del codice deontologico forense.

Secondo il CNF, il semplice richiamo verbale non è una risposta sanzionatoria adeguata a una condotta di questo tipo, poiché incide sui doveri fondamentali dell'avvocato e sul corretto esercizio della professione.

La vicenda all'origine del procedimento disciplinare

Il caso nasce dall'esposto di un assistito che aveva affidato a un'avvocata l'incarico per un'azione risarcitoria conseguente a un sinistro stradale. La professionista si era resa disponibile ad anticipare alcune spese, da recuperare al momento della liquidazione del risarcimento.

Successivamente, il cliente revocava il mandato e nominava un nuovo difensore. Alla richiesta di trasmissione del fascicolo, l'avvocata subordinava la consegna della documentazione al pagamento delle spese anticipate e del compenso maturato.

La decisione del Consiglio distrettuale di disciplina

Il Consiglio distrettuale di disciplina di Firenze avviava il procedimento, nel corso del quale la professionista ammetteva la condotta, qualificandola come prassi adottata nello studio.

Pur riconoscendo la violazione dell'art. 33, comma 2, del codice deontologico forense, il CDD riteneva sufficiente applicare il richiamo verbale, valorizzando l'assenza di precedenti disciplinari e ritenendo che la condotta non avesse inciso in modo significativo sulla difesa dell'assistito.

Il ricorso del Consiglio dell'Ordine

Il Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Firenze impugnava la decisione, contestando la sproporzione della sanzione. Secondo il COA, l'illecito deontologico sussiste a prescindere dall'effettivo pregiudizio arrecato al diritto di difesa del cliente.

Veniva inoltre criticata la valutazione della personalità dell'incolpata, segnalando l'esistenza di precedenti rilievi disciplinari e chiedendo l'applicazione di una sanzione più incisiva, come l'avvertimento o la censura.

La pronuncia del Consiglio nazionale forense

Il CNF ha accolto il ricorso, ritenendo pacifica la riconducibilità della condotta al divieto di subordinare la restituzione dei documenti al pagamento del compenso. Il Consiglio ha chiarito che il danno concreto subito dal cliente non costituisce elemento essenziale dell'illecito, ma rileva solo nella graduazione della sanzione, richiamando un orientamento già espresso in precedenti decisioni (tra cui CNF n. 276/2024).

Anche in assenza di un pregiudizio grave, la mancata immediata restituzione degli atti comporta almeno un ritardo nella tutela dei diritti dell'assistito e incide sul decoro e sulla dignità dell'avvocatura. È stato inoltre valorizzato il carattere consapevole e volontario della condotta, giustificata come prassi di studio, elemento incompatibile con la qualificazione dell'illecito come lieve o scusabile.

Le conseguenze della decisione

Alla luce di tali considerazioni, il Consiglio nazionale forense ha annullato la decisione impugnata e rinviato gli atti al Consiglio distrettuale di disciplina di Firenze, affinché venga applicata una sanzione adeguata, diversa dal semplice richiamo verbale. La pronuncia ribadisce con chiarezza che il rispetto degli obblighi deontologici in tema di restituzione dei documenti non può essere subordinato a logiche di natura economica.


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