La Cassazione bacchetta la Corte d'appello: stereotipi culturali ampiamente superati!

Reato di violenza sessuale

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Non esiste il "consenso implicito" in assenza di un dissenso esplicito. Questo quanto afferma la terza sezione penale della Cassazione nella sentenza n. 19599/2023 (sotto allegata).

Nella vicenda, la Corte d'appello de L'Aquila, in riforma della sentenza pronunciata in primo grado, assolveva, perché il fatto non sussiste, gli imputati del reato di cui all'articolo 609-octies cod. pen., asseritamente commesso nei confronti della minore (all'epoca quindicenne).

Il ricorso

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Avverso tale sentenza propongono ricorso il Procuratore generale della Repubblica e, tramite il difensore di fiducia, la parte civile denunciando, tra le altre cose, travisamento della prova costituita dalle indagini tecniche svolte dal R.I.S. dei Carabinieri.

In particolare, nel caso in esame ci si troverebbe di fronte ad un clamoroso caso di infedeltà della motivazione rispetto al processo, con conseguente distorsione del patrimonio conoscitivo valorizzato dalla motivazione rispetto a quello effettivamente acquisito nel giudizio. Gli esiti delle indagini scientifiche, a dire del Pg, concludevano, infatti, nel senso che delle tre tracce biologiche rinvenute sulla maglietta che la persona offesa indossava la sera del fatto, due contenevano un profilo genetico misto attribuibile ai due imputati ed una terza un profilo genetico misto attribuibile ai due imputati ed alla saliva della persona offesa. Circostanza che rendeva inverosimile la tesi difensiva di rapporti consensuali, avvenuti in tempi diversi. L'evidenza della prova scientifica appariva al contrario compatibile esclusivamente con la versione dei fatti narrata dalla giovane vittima.

In conclusione, la Corte d'appello, per i ricorrenti, aveva accolto passivamente la narrazione degli imputati che raccontavano la loro versione di contatti sessuali consenzienti con la minore, avvenuti separatamente a distanza di oltre un'ora, in palese contrasto con gli esiti della prova genetica.

Per la parte civile, inoltre, la Corte di appello non avrebbe minimamente impedito, nel corso della disposta nuova audizione della persona offesa, quel processo di «vittimizzazione secondaria» che è invece vietato dalla Convenzione di Istanbul e dalla successiva legge di ratifica. E, soprattutto non avrebbe valutato il "consenso" richiesto dall'art. 609-bis c.p., non prendendo mai in considerazione, in alcun momento della sentenza, l'aspetto della volizione o meno del rapporto da parte della persona offesa, nonostante la sua mancanza sia l'elemento costitutivo cardine del delitto.

Violenza sessuale: il dissenso è sempre presunto

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Per gli Ermellini il ricorso è fondato su tutta la linea e la sentenza è annullata. Ma è in ordine al "consenso" che dal Palazzaccio rendono una motivazione esemplare bacchettando i giudici d'appello.

In particolare, affermano dalla S.C., secondo la giurisprudenza costante, (v., ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 22127 del 23/06/2016, Rv. 270500 - 01) ai fini della consumazione del reato di violenza sessuale, "è richiesta la mera mancanza del consenso, non la manifestazione del dissenso, ben potendo il reato essere consumato ai danni di persona dormiente. Né è sufficiente il mero consenso all'atto sessuale, é altresi necessario che il consenso riguardi la specifica persona che quell'atto compie". Ancora, si è affermato (Sez. 3, n. 12628 del 17/12/2019) che «non è ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative introdotte a seguito dell'entrata in vigore della L. n. 66 del 1996, [un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera di intimità sessuale, dovendosi al contrario ritenere che tale dissenso sia da presumersi e che pertanto sia necessaria, ai fini dell'esclusione dell'offensività della condotta, una manifestazione di consenso del soggetto passivo che quand'anche non espresso, presenti segni chiari ed univoci che consentano di ritenerlo esplicitato in forma tacita".

In sostanza, nei reati contro la libertà sessuale, il dissenso è sempre presunto, salva prova contraria.

La Corte d'appello, invece, nel valutare complessivamente inattendibile la deposizione della vittima, non ha spiegato in alcun modo «come» i due imputati ne avrebbero raccolto il consenso o non ne abbiano percepito il dissenso, posto che il dato innegabile è che entrambi gli imputati hanno avuto rapporti sessuali con la vittima la stessa sera. Vittima, si ricorda, quattordicenne e "vergine", come risultava dagli atti.

La sentenza, affermando che "la stessa persona offesa ha riferito di avere bevuto qualche bicchiere di vino insieme agli imputati, ma non tanto da ubriacarsi e non ragionare" (circostanza, peraltro, smentita dall'intercettazione), sembrerebbe lasciare intendere, sia pure in modo larvato, concludono i giudici della Cassazione, "una sorta di «consenso implicito», soluzione ermeneutica che sembrerebbe ravvisare la non punibilità degli atti sessuali compiuti in mancanza di un esplicito dissenso della vittima, finendo così per porre in capo ad essa l'onere di resistere all'atto sessuale che le viene imposto, quasi gravasse sulla vittima una «presunzione di consenso» agli atti sessuali da dover di volta in volta smentire, ciò che si risolverebbe in una supina accettazione di stereotipi culturali ampiamente superati".

Scarica pdf Cass. n. 19599/2023

Foto: 123rf.com
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