Il tribunale di Cosenza, riportandosi ai dettami della Cassazione, ritiene che il figlio maggiorenne che lavora in un call center abbia una capacità lavorativa che lo rende economicamente indipendente

Mantenimento figlio maggiorenne

Va escluso il mantenimento del figlio maggiorenne che lavora in un call center perchè ormai inserito nel mondo del lavoro, con una capacità lavorativa che lo rende economicamente indipendente. Lo ha statuito il tribunale di Cosenza con sentenza del 2.1.2023 (sotto allegata) conformandosi ai principi espressi in materia dalla Cassazione.

Nella vicenda, l'ex moglie chiedeva la separazione personale dal marito con dichiarazione di addebito per "continue e reiterate violazioni degli obblighi discendenti dal matrimonio".

In particolare, la donna oltre a denunciare violenze fisiche e morali subite, chiedeva un assegno di mantenimento per sè e un contributo per il figlio maggiorenne, oltre all'assegnazione della casa coniugale, di proprietà del marito.

L'uomo negava il tutto e allegava di aver sempre contribuito ai bisogni della famiglia e dei figli, negando la veridicità di ogni accusa di violenza, a suo dire artatamente costruita dalla moglie.

Contestava altresì la richiesta di assegno di mantenimento, poiché la ricorrente svolgeva attività lavorativa ed il figlio era stato sostenuto negli studi ed aiutato a raggiungere la sua indipendenza economica, visto che lavorava part-time in un call center.

Il giudice riteneva non dimostrato il disinteresse economico del resistente nei confronti della famiglia, avendo egli documentato gli esborsi sostenuti per i figli e per la moglie, nonché per la manutenzione ordinaria e straordinaria della casa coniugale. Ma riteneva provati maltrattamenti, ritenendo sussistenti i presupposti per pronunciare l'addebito della separazione.

"Le reiterate violenze fisiche e morali inflitte da un coniuge all'altro, costituiscono violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all'autore di esse" afferma infatti il tribunale riportandosi alla giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass. n. 31351/2022).

Per il giudicante vanno invece rigettatele richieste di assegnazione della casa coniugale alla ricorrente e di assegno di mantenimento in favore del figlio maggiorenne.

Quanto all'assegnazione della casa coniugale, premette il tribunale, "la disciplina prevista nell'art. 337 sexies c.c. è diretta alla tutela esclusiva della prole, minorenne o maggiorenne ma ancora indipendente, scossa dalla disgregazione dell'unità familiare, in modo da garantire ai figli la permanenza in un ambiente domestico. L'assegnazione viene, pertanto, disposta tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli minorenni e dei figli maggiorenni non autosufficienti a permanere nell'ambiente domestico in cui sono cresciuti, per garantire il mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale ambiente si sono radicate, sicchè è estranea a tale decisione ogni valutazione relativa alla ponderazione tra interessi di natura solo economica dei coniugi o dei figli".

Ai fini del riconoscimento dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, ovvero del diritto all'assegnazione della casa coniugale, osserva ancora il tribunale, "il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all'età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo o l'assegnazione dell'immobile, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e (purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori) aspirazioni" (cfr. Cass. n. 17183/2020).

Nel caso di specie, il figlio, ormai trentenne, lavora da più anni in un call center con contratti rinnovati di periodo in periodo, per uno stipendio di 450 euro mensili e coabita con la fidanzata in un appartamento in città diversa dalla madre, dove ritorna solo nel fine settimana.

Per tali motivi, ritiene il tribunale, che il figlio "si sia ormai inserito nel mondo del lavoro ed abbia una capacità lavorativa che lo rende economicamente indipendente. Il mantenimento da parte dei genitori del figlio maggiorenne, che sia stato sostenuto nel percorso di studi e nella ricerca di lavoro, non può essere protratto sine die, ma serve a garantire il soddisfacimento dei bisogni primari sino a che il figlio non riesca ad inserirsi nel mondo del lavoro. Una volta che la prole abbia tutti gli strumenti necessari per svolgere una attività remunerativa ed abbia trovato un primo impiego, magari non del tutto soddisfacente o corrispondente alle proprie aspirazioni, non si può ritenere sussistente il diritto all'assegno di mantenimento. Naturalmente, si deve valutare caso per caso il tipo di impiego reperito, la stabilità dello stesso, la remunerazione prevista, tenendo però conto delle condizioni economiche della famiglia e dell'età del figlio: "In materia di mantenimento del figlio maggiorenne e non autosufficiente, i presupposti su cui si fonda l'esclusione del relativo diritto, oggetto di accertamento da parte del giudice del merito e della cui prova è gravato il genitore che si oppone alla domanda, sono integrati: dall'età del figlio, destinata a rilevare in un rapporto di proporzionalità inversa per il quale, all'età progressivamente più elevata dell'avente diritto si accompagna, tendenzialmente e nel concorso degli altri presupposti, il venir meno del diritto al conseguimento del mantenimento; dall'effettivo raggiungimento di un livello di competenza professionale e tecnica del figlio e dal suo impegno rivolto al reperimento di una occupazione nel mercato del lavoro" (cfr. Cass. n. 38366/2021).

In quest'ottica, "lo svolgimento di un'attività retribuita, ancorché prestata in esecuzione di contratto di lavoro a tempo determinato, può costituire un elemento rappresentativo della capacità del figlio di procurarsi un'adeguata fonte di reddito, e quindi della raggiunta autosufficienza economica, che esclude la reviviscenza dell'obbligo di mantenimento da parte del genitore a seguito della cessazione del rapporto di lavoro".

Nella fattispecie, sebbene il rapporto di lavoro del figlio sia a tempo determinato, lo stesso viene rinnovato da anni, e la ridotta remunerazione è comunque coerente con il basso reddito familiare. A tali elementi si deve aggiungere l'età del ragazzo e la sua situazione di convivenza.

In casi simili, la stessa giurisprudenza di legittimità ha affermato che "il figlio di genitori divorziati, che abbia ampiamente superato la maggiore età, e non abbia reperito, pur spendendo il conseguito titolo professionale sul mercato del lavoro, una occupazione lavorativa stabile o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente, non può soddisfare l'esigenza ad una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve aspirare, mediante l'attuazione dell'obbligo di mantenimento del genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito, ferma restando l'obbligazione alimentare da azionarsi nell'ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell'individuo bisognoso" (cfr. Cass. n. 29264/2022).

Confermato infine l'assegno di mantenimento in favore della donna, in Euro 300 mensili, da rivalutare annualmente in base agli indici Istat.

Scarica pdf Trib. Cosenza 2.1.2023

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