In occasione dei 50 anni di Unaep, la presidente Antonella Trentini fa una panoramica sulla situazione di crisi dell'avvocatura, sui traguardi tagliati e su quanto, e tanto, c'è ancora da fare

50 anni di Unaep un traguardo importante… cosa è stato fatto e cosa rimane da fare?

L'ultimo decennio è stato determinante. Sono presidente da settembre 2013: sul piano numerico siamo passati da un centinaio di "simpatizzanti", a circa 900 iscritti reali, dato che la quota viene trattenuta con delega sugli stipendi. Sul piano dei risultati, voglio ricordare alcuni tra i più rilevanti: l'art. 23 della legge forense, l'attuale versione dell'art. 9 L. 114/2014 sui compensi professionali (migliorativa rispetto al decreto legge), le audizioni nelle Commissioni parlamentari, la presentazione di progetti di legge (l'ultimo dei quali è del novembre scorso), la partecipazione stabile fra le rappresentanze degli avvocati amministrativisti al Tavolo permanente della giustizia amministrativa, il protocollo d'intesa con il CNF per la formazione continua.

Da fare resta sempre tanto, ma certamente in capo a tutto c'è il "ruolo professionale" che ponga basi unitarie per la professione forense dipendente.

Uno dei vostri "cavalli di battaglia" è l'inserimento dell'avvocato nella Costituzione. Perché e a che punto siamo con il ddl di riforma?

Nessuna riforma della giustizia potrà mai essere realmente efficace se non si passa dal porre sullo stesso piano tutte le parti del processo, impegnate parimenti in funzioni pubblicistiche. Senza questo tassello il puzzle non sarà mai completato e il sistema giustizia continuerà nel suo claudicante andamento lento, con buona pace della realizzazione piena della giustizia reale e della difesa dei diritti e delle libertà.

Voi sostenete che l'avvocato dipendente è soggetto a sperequazioni di trattamento, quali sono e quali diritti dovrebbero invece essere riconosciuti?

Mi piace dire che c'è un solo modo di fare l'avvocato in Italia. I codici processuali sono unici così come uguali per tutti sono i termini dei processi. Quindi avvocato "pubblico" o "libero" sono definizioni olistiche. Da ciò deriva che è solo l'esercizio della professione che dovrebbe contare, indipendentemente da dove la si svolge, nel proprio studio o alle dipendenze di una P.A.: la differenza fra un avvocato e l'altro è determinata dall'esperienza, dalla specializzazione e dalla funzione.

Quale futuro vede per l'avvocatura in questo periodo di crisi?

Vedo un enorme deficit di dignità. E il timore che influenzi il futuro se non si corre ai ripari. Ritengo, allo stesso modo, che il futuro dell'avvocatura dipenda dall'Avvocatura. Mi spiego. Finché taluni colleghi del libero foro si propongono come "merce" in saldo pensando di sconfiggere la crisi, penso alla battaglia condotta dal determinato presidente del COA di Roma, Galletti, che mi onoro di avere per amico prima ancora che collega, finché taluni Ordini non prestano attenzione quando è leso un avvocato dipendente, finché il senso di corpo non si riavvolge sotto la stessa toga, stiamo solo perdendo l'occasione per affermare autonomia, indipendenza e dignità all'intera professione forense.

Scusi, ma lei andrebbe dal chirurgo più a buon mercato a farsi operare, o cercherebbe quello più quotato sul mercato?

Fuor di metafora, dalle più grandi crisi della storia, e questa è una delle peggiori da un secolo a questa parte, si è usciti solo con il contributo di molteplici fattori: azioni decise, riforme coraggiose, innovazione, tecnologia, ecc. In altre parole, gli Ordini dovrebbero lottare contro la "professione in saldo"; il governo dovrebbe avere il coraggio di completare il puzzle per una riforma reale; la tecnologia e innovazione utilizzate durante i lockdown dovrebbero essere affinate, non gettate.


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