Per la Cassazione, scatta la condanna della parte ex art. 96 c.p.c. a seguito del ricorso manifestamente inammissibile e per l'impugnazione avvenuta con colpa grave costituente evidente abuso dello strumento processuale

Legale perora tesi infondate? Rischia di farne le spese il cliente

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Ricorso in Cassazione privo di esposizione sommaria dei fatti, lacunoso, nonché fondato su plurimi motivi confusi e ripetitivi, per molti aspetti di difficile intelligibilità, che risultano tutti nella sostanza inammissibili.


Ciò giustifica la decisione di far scattare la responsabilità processuale aggravata a carico della parte ex art. 96, comma 3, c.p.c. in virtù di un'impugnazione che si qualifica come un sostanziale abuso dello strumento processuale.


Nonostante sia l'avvocato patrocinante in Cassazione, tenuto a prestazione altamente professionale, a perorare tesi manifestamente infondate, rischia (letteralmente) di farne le spese il cliente, in quanto quest'ultimo risponde ex art. 2049 c.c. dell'operato del legale ex art. 2049 c.c. e potrebbe dunque vedersi condannare al pagamento di una somma ulteriore in favore della controparte pari al doppio delle spese liquidate per il giudizio di legittimità. Tanto emerge dall'ordinanza n. 21408/2021 (qui sotto allegata) pubblicata dalla terza sezione civile della Corte di Cassazione.


La vicenda origina dall'opposizione all'esecuzione e agli atti esecutivi proposta contro un precetto di pagamento. L'opposizione viene rigettata dal Tribunale e poi anche l'appello si risolve in un nulla di fato. Anzi, la Corte territoriale ritiene di applicare il principio della soccombenza di cui all'art. 91 c.p.c. nello statuire sulle spese di lite del grado, avendo dichiarato in parte inammissibile e in parte infondato il gravame. In particolare, si evidenzia come l'impugnazione sia sorretta da elementi inconsistenti e già dichiarati infondati dal Tribunale.

Esposizione sommaria dei fatti

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Argomenti che vengono ripresi anche dalla Corte di Cassazione. Si evidenzia, in prima battuta, come il ricorso in tale sede, tra l'altro, non rispetti neppure il requisito dell'esposizione sommaria dei fatti (prescritto a pena di inammissibilità dall'art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c.).


Trattasi, precisa la Corte, di uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, che deve consistere in un'esposizione sufficiente a garantire al giudice di legittimità di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata.


Tale requisito, spiega ancora il Collegio, non risponde a un'esigenza di mero formalismo, ma è volto a consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato.


Nel caso di specie, il ricorrente non chiarisce in modo adeguato le ragioni poste a base della sua opposizioni, non indica neppure le difese svolte dalla parte opposta in relazione alle ragioni dell'opposizione e, soprattutto, non illustra in modo adeguato il contenuto della decisione di primo grado, così come non riporta il contenuto dell'appello proposto avverso la sentenza di primo grado e le difese svolte dall'opposto nel giudizio di gravame.

Ciò non consente alla Corte di avere quella indispensabile chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale senza over ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso.

Ricorso sostanzialmente inammissibile

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Per completezza espositiva, gli Ermellini danno atto della sostanziale inammissibilità, anche ai sensi dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., di tutti i motivi del ricorso, in quanto le censure con essi avanzate non sono sostenute dallo specifico richiamo del contenuto degli atti e dei documenti rilevanti ai fini della valutazione del loro fondamento nel merito.


I numerosi motivi del ricorso vengono giudicati "confusi e ripetitivi (...) per molti aspetti di difficile intelligibilità". Lo stesso vale con riguardo ai motivi che censurano la condanna a cui il ricorrente era già andato incontro in sede di appello, avendo il giudice a quo posto a suo carico, non solo, le spese processuali del grado, ma anche un'ulteriore somma ex art. 96 del codice di rito e la pena pecuniaria di cui all'art. 283, comma 2, dello stesso codice.


Le doglianze sul punto appaiono aspecifiche e inammissibili, prima ancora che infondate. Corretto appare, inoltre, l'operato del giudice d'appello e, anzi, sulla falsariga di quanto affermato dalla Corte territoriale, anche la Cassazione ritiene a sua volta di far scattare la condanna ex art. 96, comma 3, del codice di procedura civile.

Responsabilità aggravata

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Non solo il ricorso è manifestamente inammissibile, ma l'esercizio del potere di impugnazione è ritenuto connotato da colpa grave e costituente "un evidente abuso dello strumento processuale".

Secondo il Collegio, in una simile ipotesi, il legale abilitato all'esercizio presso le giurisdizioni superiori, sulla base della diligenza cui è tenuto per la prestazione altamente professionale che fornisce, è sicuramente in grado di percepire la circostanza di perorare tesi infondate e comunque del fatto di avanzare un'impugnazione di legittimità non suscettibile di accoglimento.

Tale atteggiamento conduce alla condanna al pagamento di un importo che gli Ermellini fissano equitativamente in 10mila euro, importo pari al doppio di quello liquidato per le spese del giudizio di legittimità, in favore della parte controricorrente. Tale condanna, infatti, grava sulla parte ricorrente, dunque sul cliente, in quanto, precisa la Suprema Corte, la parte risponde dell'operato del professionista ai sensi dell'art. 2049 del codice civile.

Scarica pdf Cassazione Civile ordinanza n. 21408/2021

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