- Atti persecutori aggravati dall'uso di WhatsApp
- Aggravante mezzi informatici in assenza dell'iniziativa del PM
- Stalking aggravato per chi invia sms minacciosi con WhatsApp
Atti persecutori aggravati dall'uso di WhatsApp
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Nella sentenza n. 19883/2021 (sotto allegata) la Cassazione precisa tra le altre cose che il reato di atti persecutori di cui all'art. 612 bis c.p è aggravato dall'utilizzo dei mezzi informatici quando le frasi intimidatorie e minacciose vengono indirizzate alla persona offesa attraverso l'applicazione messaggistica di WhatsApp.
La vicenda processuale
Il giudice dell'impugnazione riforma il trattamento sanzionatorio della sentenza con cui il GUP ha affermato la penale responsabilità dell'imputato per il reato di atti persecutori aggravato dall'utilizzo di strumenti informatici di cui all'art. 612 bis c.p. commi 1 e 2 c.p, modificando solo il trattamento sanzionatorio, in virtù del riconoscimento delle circostanze aggravanti, equivalenti all'aggravante e alla recidiva, con conseguenti statuizioni civili.
Aggravante mezzi informatici in assenza dell'iniziativa del PM
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Il difensore dell'imputato contesta detta sentenza di fronte alla Corte di Cassazione sollevando diversi motivi di ricorso.
- Con il primo rileva l'insussistenza dell'elemento soggettivo del reato di atti persecutori.
- Con il secondo fa presente che il GUP ha ritenuto contestata in fatto l'aggravante della commissione del reato di atti persecutori con mezzi informatici, in assenza dell'iniziativa del PM.
- Con il terzo chiede la correzione dell'errore materiale contenuto in sentenza, in quanto è stata indicata la violazione dell'art. 612 bis c.p. comma 3, non contesta all'imputato.
- Con il quarto infine lamenta carenza di motivazione in relazione al calcolo della pena, applicabile nel minimo edittale.
Stalking aggravato per chi invia sms minacciosi con WhatsApp
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La Corte di Cassazione adita però rigetta il ricorso, ritenendolo infondato.
Per quanto riguarda la ritenuta carenza dell'elemento soggettivo del reato a causa dei problemi di dipendenza, memoria e attenzione dell'imputato la Cassazione fa presente che non è stata dedotta la violazione del precetto penale. Il ricorso infatti non ha fatto che riproporre le stesse questioni dell'appello, tra l'altro già disattese. La Corte di Appello, con motivazione logica e coerente, ha comunque ritenuto l'imputato responsabile per il reato contestatogli perché consapevole di cagionare con la propria condotta stati d'ansia e timore nella persona offesa.
In merito alla contestazione dell'aggravante la Cassazione chiarisce che in realtà la stessa non è assente. Non rileva la mancata indicazione specifica del comma dell'art. 612 bis c.p che prevede l'aggravante. Ciò che conta è l'imputazione in cui sono state distinte le telefonate dai messaggi telefonici indirizzati dall'imputato alla persona offesa. Messaggi che, seppur genericamente, fanno riferimento a quelli inviati tramite WhatsApp, applicazione che consente infatti l'invio di brevi testi telematici tramite l'utilizzo del telefono. Gli Ermellini specificano infine che detta violazione non può essere contestata per la prima volta, come nel caso di specie, in sede di legittimità.
La Corte passa poi all'esame del quarto motivo perché con il terzo è stata richiesta la correzione di un errore materiale. Nella sentenza la Corte di Appello ha spigato le ragioni della misura della pena comminata, valorizzando l'intensità del dolo, la gravità delle condotte tenute dall'imputato e il perdurare per diversi mesi delle molestie e delle minacce commesse ai danni della persona offesa, tanto che a un certo punto è stata applicata la misura del divieto di avvicinamento.
La Corte dispone infine la correzione materiale della sentenza in quanto "come già esposto, deve ritenersi che all'imputato sia stato contestato di aver commesso il fatto attraverso strumenti telematici, circostanza prevista dall'art. 612 bis comma e cod.pen. e non anche dal successivo comma 3, ragion per cui l'indicazione di quest'ultimo deve imputarsi a un mero errore materiale."
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Scarica pdf Cassazione n. 19883/2021• Foto: 123rf.com